La sostenibilità civile

Quando negli anni Sessanta incominciò a svilupparsi il movimento ambientalista suffragato dal think tank (serbatoio di idee) degli uomini influenti del pianeta, entrò nel lessico del dibattito filosofico, economico e sociologico il termine di “sostenibilità”.
I diversi approcci per garantire più vivibilità al pianeta partivano quasi sempre da una base individualista neo-malthusiana la cui preoccupazione sulla “sostenibilità” non teneva in conto i poveri del pianeta, anzi mirava alla loro riduzione per ridurre la povertà.
Negli anni Settanta ci furono due crisi del petrolio e nel nostro Paese l’inflazione galoppava su due cifre. Da bambino ricordo che i negozianti, privi di monete, davano come resto caramelle o gettoni telefonici, cimeli archeologici per l’attuale epoca degli smartphones e dell’iperconnettività.
Solo la Chiesa, con la sua voce profetica, si preoccupò in maniera sempre più esplicita dell’ecologia dell’uomo che rientrò nel Magistero di Giovanni Paolo II con la Centesimus Annus, di Benedetto XVI con la Caritas in veritate e di Papa Francesco con la Laudato si’.
Si tratta di tre documenti che arricchiscono la dottrina sociale della Chiesa esplicitandola e attualizzandola di fronte alle sfide del nostro tempo.
LA Chiesa come “madre e maestra” da sempre ha voluto prendersi cura dell’uomo che lo sente affidatogli da Dio.
Nel 1994 John Elkington coniò il termine di Sustain-Ability in riferimento a un nuovo paradigma che chiamò “the triple bottom line” (TBL o 3BL) e cioè Popolo, Pianeta, Profitto o, in altri termini, Società, Ambiente, Economia.
Fino a quel momento, mentre il dibattito sui cambiamenti climatici e sulla crisi economica accendevano i riflettori sulla sostenibilità ambientale ed economica, poco si era parlato di sostenibilità sociale.
Il disinteresse diffuso ha così favorito la crisi del modello di Welfare State 1 esistente. Il conto, per i cittadini, è stato elevato: in Italia, tagli non graduali, a volte brutali, alla spesa sociale per salvare i conti pubblici e la tenuta complessiva del Paese.
Ci si sta così rendendo conto che la sostenibilità sociale – intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia) equamente distribuite per classi e genere – è in realtà la più strategica delle tre. Perché in presenza di inique diseguaglianze e in assenza di coesione sociale non possono realizzarsi la sostenibilità economica e quella ambientale.
Prova ne è il risultato delle ultime elezioni politiche, manifesto segno di malcontento del Paese, sfiducia nella classe politica e talvolta nelle istituzioni e sperequazione tra Nord e Sud con valori sul PIL e sulla disoccupazione del 20% come se si trattasse di due Paesi differenti.
Per l’amore che porto al nostro Paese ho rispolverato dopo la tornata elettorale un saggio del Prof. Stefano Zamagni economista e membro della Pontificia Accademia delle Scienze che insieme a Luigino Bruni, uno dei padri dell’economia civile, ha proposto un nuovo modello di Welfare.
Nell’insostenibilità del modello totalista nel quale lo Stato si occupa di tutta la condizione dei cittadini (dalla culla alla bara) e nella parzialità del modello plurale nel quale i vari settori produttivi concorrono al benessere di impiegati e operai solo laddove i dirigenti sono illuminati e solidali, il traguardo finale di un Paese evoluto è il welfare civile.
Questo terzo modello fa riferimento alla antica civitas: quel luogo non solo fisico ma anche valoriale e culturale nel quale si riconoscevano i cittadini.
Tende a migliorare la capacità di vita delle persone (la capability evocata da Amartya Sen 2 ) e non le condizioni di vita. Questo modello di welfare civile favorisce la coesione sociale: è inclusivo perché mette in pratica il principio di reciprocità. Aiuta chi ha bisogno e lo sensibilizza a restituire alla società quanto può dare lui (in termini di tempo e competenze, ad esempio). Per raggiungere questo obiettivo, bisogna dotare la civitas di una infrastrutturazione adeguata, anche digitale: una sorta di banca del tempo, nella quale il portatore di bisogni non si sente umiliato di ricevere, proprio perché può ricambiare (come l’anziana che al pomeriggio cura i bambini del palazzo e poi chiede ai genitori di portarle la spesa a casa per non fare lei le scale).
Questo genererebbe una sussidiarietà circolare: il settore pubblico, la business community e il mondo della società civile organizzata.
Interagiscono in maniera sistematica tra di loro (immaginiamo un triangolo) sulla base di protocolli stabiliti per definire le priorità di intervento sociale, e per trovare le modalità di gestione più efficaci per raggiungere gli obiettivi condivisi.
L’ente pubblico oggi o non ha le risorse o non ha le informazioni per conoscere le esigenze reali della società civile: gli apparati non stanno sul territorio, ma negli uffici, e sono diventati burocrazia Il mondo dell’impresa ha le risorse economiche ma da solo non può farcela a definire strategie comuni. Dal canto suo, solo la società civile sa come evitare il paternalismo assistenzialistico. I tre mondi devono interagire in maniera sistematica.
Queste idee hanno radici antiche in Italia, che affondano nel Rinascimento.
I Francescani per il loro distacco dal denaro ma soprattutto per il loro pieno inserimento nel tessuto sociale, lottarono contro le diseguaglianze sociali e i loro mostri come l’usura. S. Bernardino da Siena fondò i Monti di Pietà cioè una forma primitiva di banca per elargire prestiti alle famiglie sul lastrico senza esigere smisurati interessi.
Il welfare civile è realizzato oggi in diversi Comuni illuminati, in Trentino, in Emilia Romagna, in Toscana. Anche la società civile le attua in alcune città, con il modello delle social street (una ricerca dell’Università Cattolica ne ha mappate ben 64 a Milano). E le ultime novità normative favoriranno questa transizione.
I nuovi articoli 118 e 119 della Costituzione che introducono la sussidiarietà fanno riferimento alla sussidiarietà circolare.
Anche l’introduzione nel nostro ordinamento delle Benefit corporation 3 , nella legge di Stabilità, avrà effetti positivi in tal senso: le B Corp non destinano profitti, ma proventi al sociale e questo è un passo avanti sulla responsabilità sociale d’impresa fin qui praticata. Anche le aziende low profit che si stanno affermando portano acqua a questo mulino. E la riforma del terzo settore in fase di approvazione completerà il quadro giuridico favorevole, ponendo l’Italia all’avanguardia europea. Qualche lezione agli altri Paesi possiamo ancora darla, se rafforziamo i nostri sforzi sulla frontiera della sostenibilità sociale. Tutti insieme: pubblico, imprese, terzo settore e cittadini.
Tutto partito dal pensiero cristiano sull’uomo, sull’economia, sulla società.

Fra AMAB


  1. Lo Stato sociale o anche Stato assistenziale (anche detto dall’inglese welfare state), è una caratteristica dei moderni Stati di diritto che si fondano sul principio di uguaglianza.
  2. Economista indiano premio Nobel per l’economia nel 1988.
  3. Una Certified B Corporation o B Corp è un nuovo tipo di azienda che volontariamente rispetta i più alti standard di scopo, responsabilità e trasparenza.  Le B Corp si distinguono sul mercato da tutte le altre realtà. Vanno oltre l’obiettivo del profitto e innovano per massimizzare il loro impatto positivo verso i dipendenti, le comunità in cui operano e l’ambiente. In questo modo il business diventa una forza rigeneratrice per la società e per il pianeta. Si tratta di una comunità in rapida crescita a livello globale ma anche in Italia.

 

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