“Quinto Comandamento”: la realtà supera il romanzo.

L’ultimo libro di Valerio Manfredi si ispira fedelmente alla storia di un missionario ancora vivente che a metà degli anni ’60 comandò una spedizione militare di liberazione ostaggi in Zaire e raccolse prove scottanti contro la devastazione ambientale in Amazzonia mettendo in serio pericolo la propria vita.

Si sta preparando anche un film.

Avevo da poco avuto tra le mani “Gli Idi di Marzo” quando ne incontrai l’autore al festival del cinema cristiano del 2011.

Asciutto e canuto con la foggia a caschetto, Valerio Manfredi si è sempre distinto per il successo dei suoi romanzi tratti da storie vere con personaggi da leggenda.

Eppure Ulisse, Giulio Cesare, Alessandro Magno… non sfigurano affatto accanto a Padre Marco Giraldi il protagonista della sua ultima creazione: “Il Quinto Comandamento”.

Dietro mentite spoglie è la vera e sorprendente storia di Padre Angelo Pansa, missionario con la croce e il mitra che durante la guerra civile in Congo degli anni ’60 guidò un commando di mercenari che salvò dalla tortura e dalla morte migliaia di preti, suore, uomini, donne e bambini presi in ostaggio dai Simba.

Oggi Padre Angelo, alias Padre Marco del romanzo, ha 87 anni in un corpo da sessantenne temprato dalla foresta equatoriale e da uno spirito da Templare del XX secolo.

Vive ad Udine nella comunità dei Missionari Saveriani nella cui casa è forse l’unico a non usare mai l’ascensore!

Con memoria prodigiosa rievoca date, nomi di fiumi e di villaggi, strategie militari … da veterano di guerra più che prete!

Eppure nell’epilogo del romanzo quando sotto la Torre Eiffel di Parigi è furtivamente invitato da Jean Schramme e Bob Denard ad aiutarli ad addentrarsi in due terzi dello Zaire nel golpe contro il dittatore Mubutu in cambio di una montagna di soldi, il missionario rifiuta.

“Ma come?” – domandò Shramme. “Non è possibile: un uomo come te… Che cosa farai ora?”

Il prete” rispose. E se ne andò.

La vita di Padre Angelo rappresenta uno di quei casi in cui la realtà è più avvincente della fantasia.

Ha salvato da morte certa centinaia di missionari, suore, uomini, donne e bambini durante la guerra civile in Congo.

E, come uno 007, ha prelevato furtivamente un campione di diossina da un’azienda che la usava per distruggere la foresta amazzonica, è stato braccato per giorni da killer, è rimasto intossicato dal veleno e alla fine è rimasto in coma per 28 giorni.

E’ con questa vicenda che inizia “Quinto Comandamento”.

Fu tra il 1964 e il 1966 che Padre Angelo Pansa, con il tacito benestare del Nunzio Apostolico in Congo ex Belga, guidò un commando di mercenari assoldati per liberare i religiosi in ostaggio dei ribelli Simba, perché ritenuti conniventi degli odiati colonialisti belgi.

In Congo, proprio mentre il Paese stava per ottenere l’indipendenza dal Belgio gli eventi erano precipitati. Il discorso di un giovane rivoluzionario, Patrice Lumumba, aveva incendiato gli animi e il Congo aveva preso fuoco. Era scoppiata la guerra civile, gli scontri tra le etnie, la caccia ai colonizzatori. Padre Marco però decise di non scappare. Restò in Congo a difendere i confratelli innocenti in quel Paese in preda al caos, le vittime di un odio e di una violenza feroce che non risparmiava né vecchi, né donne, né bambini. Ma non poteva riuscirci da solo. aveva bisogno di una squadra, composta da quello che in quel momento può trovare. E sotto le parvenze di professionisti in disarmo, di giovani ansiosi di avventura, di relitti umani, trovò degli eroi. Nacque così il Quinto Commando: guerrieri, mercenari, tra cui Kazianoff, un medico russo alcolizzato ex Spetsnaz, Louis, un prete vallone rinnegato per amore, Rugenge, il leopardo nero, giovane cacciatore congolese dalla mira micidiale, Jean Lautrec imbattibile con il mitra, tutti agli ordini di padre Marco, il Templare di fine millennio.

In queste spedizioni vide orrori inenarrabili.

«Di fronte ai corpi di confratelli con la gola tagliata, seviziati e mutilati, – racconta lui stesso – tante volte ho urlato a Dio: “Perché? Perché?”. Non ho trovato una risposta, se non in me stesso. Ho capito che di fronte alla violenza più cieca bisogna fare qualcosa. Fino a quando sono io in pericolo, posso scegliere di ignorare il mio diritto all’autodifesa, ma se vedo qualcuno stuprare, torturare e uccidere una creatura inerme e non faccio nulla, sono connivente con la violenza. Lo ripetevo sempre anche ai miei uomini: “Se vi vedo fare del male a gente innocente, io vi sparo”. E sapevano che l’avrei fatto davvero».

Solo una volta però gli è capitato di dover sparare qualcuno direttamente.

Racconta il missionario: «Arrivai con il mio commando a circondare un battaglione di Simba che tenevano prigionieri circa centoquaranta ostaggi: uomini, donne, bambini. Potevano accorgersi di noi da un momento all’altro e diedi l’ordine di attacco. Quando arrivammo a ridosso dei Simba vidi che avevano appena squartato un mio confratello e ne stavano mangiando il fegato. Premetti il grilletto del mio Kalashnikov ma l’arma s’inceppò. Forse Dio non volle che mi macchiassi le mani di sangue. Ma tanto i miei mercenari facevano comunque quello che io non avevo il coraggio di fare…»

A Stanleyville il 25 novembre 1964 con i suoi uomini del Quinto Commando era partito per liberare gli ostaggi, ma arrivarono 24 ore in ritardo. Trovarono i poveri corpi massacrati in una fossa comune. Poi avvenne un miracolo: dalla foresta uscì un uomo con i vestiti a brandelli e gli occhi allucinati. Era un missionario. La sua lunga barba lo aveva protetto quando gli avevano tagliato la gola e poi era riuscito a fingersi morto e a nascondersi.

Per due volte Padre Angelo si ritrovò anche davanti a un plotone di esecuzione.

La prima volta era insieme a un confratello spagnolo. Vennero fermati a un posto di blocco e il comandante ordinò ai suoi uomini di fucilarli all’istante come spie. Ma il soldato frugò nella camionetta e non trovò le armi, ma solo delle birre! Finì che il comandante se le scolò con i soldati e così lasciarono andare i missionari.

La seconda volta invece era solo ma giocò d’astuzia. Disse ai Simba che era un sacerdote. Se lo avessero ucciso, il suo spirito li avrebbe perseguitati. Si spaventarono e guadagnò una notte. Al mattino i guerrieri di un villaggio vicino lo liberarono.

Padre Angelo porta però con sé un rimorso:

Dopo la liberazione di Uvira, quando il suo superiore gli proibì di tentare di liberare gli ultimi sei missionari rimasti nella zona, un mese dopo quattro furono trucidati. Quando gli capitava di dover scegliere quale gruppo di ostaggi salvare, condannando così a morte certa l’altro, sceglieva sempre l’operazione più difficile da portare a termine.

In Africa incontrò anche personaggi come Che Guevara che tentò di convertire al marxismo i Simba, ma fu un fallimento totale.

Padre Angelo salvò invece la vita a Frederick Forsyth, l’autore di bestseller come Il giorno dello sciacallo e Dossier Odessa. All’epoca era un reporter accompagnato da due consiglieri americani. Raccontò poi quel periodo in “I mastini della guerra”.

Padre Angelo Pansa non avrebbe mai sperato di avere una vita così longeva.

Nel timore di morire da un momento all’altro per mano violenta, ha tenuto un diario sul quale ogni sera annotava tutto. Viveva come se ogni giorno fosse l’ultimo.

Lo stesso Valerio Manfredi che ha trattenuto in casa sua il missionario per diversi giorni fa menzione del diario anche se gli interessava più l’epica che la cronaca, le emozioni più che le azioni.

«Nel riprendere in mano il suo diario – dice lo scrittore Manfredi – piangeva. Mi ha commosso anche il fatto che quando ho aggiunto dei personaggi immaginari, lui si è affezionato a loro, perché evidentemente avrebbero potuto esistere nella realtà. Per esempio suor Antoniette, che il mio padre Marco salva da un destino terribile. A un certo punto, mi ha chiesto: “Ma poi si rivedono?”».

Ogni mattina padre Angelo, appena sveglio, celebra la Messa e non si separa mai dal suo Rosario.

Con lo sguardo penetrante da capo militare a distanza di oltre cinquant’anni ricorda ogni dettaglio delle spedizioni che aveva guidato.

Alla soglia dei novant’anni partirebbe ancora per il lontano Congo o la foresta amazzonica. Lo ha chiesto più volte ai superiori.

Non vorrà più fare estrazioni di civili, ma insegnare come si coltiva la terra.

E’ bravo anche in questo!

Fra AMAB

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *