S. Giovanni della Croce, una fiamma d’amore!

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude….

Più volte sono asceso al Tabor della contemplazione cantando il mio idillo interiore dove i sentieri dell’ascesi e della mistica si sono incrociati.

Il merito non è attribuibile alla pur alta lirica dei citati versi leopardiani, ma agli scritti di San Giovanni della Croce oggi liturgicamente celebrato.

La sua opera, “La salita al Monte Carmelo”, inneggia all’incontro con Dio cogliendo nel tramonto, mentre il sole cala, l’opportunità dell’uomo di staccarsi dal trambusto del suo lavoro, delle sue occupazioni quotidiane, per trovarsi con il Dio che lo aspetta per sedersi a tavola, per condividere la riflessione sulla giornata vissuta insieme.

Aveva quarantanove anni, esattamente la mia età, il santo spagnolo quando terminò la sua salita al Tabor superando l’ultima siepe che schermava la vista verso l’Infinito.

Sin da novizio la sua vita mi ha sempre affascinato sia per il suo genio poetico, sia per la sua capacità di trasfigurare situazioni crocifiggenti, specie sul piano relazionale.

Prima di morire decise infatti di vivere nello stesso convento del superiore che lo aveva perseguitato.

A proposito di colli, montagne e cime, la sua vita fu innanzitutto una salita al Calvario.

Le sue sofferenze furono il risultato di una grande capacità di amare ereditata forse dal papà che antepose l’amore per la sposa ai privilegi di un casato che lo diseredò per quel matrimonio osteggiato dal quale nacque il nostro santo: figlio di un nobile e di una popolana.

E’ per un più grande amore a Dio che San Giovanni della Croce fu perseguitato dai confratelli che vedevano nel suo desiderio di riforma di un Carmelo che aveva perso l’antico fervore, una minaccia alla tiepidezza incrostatasi nel chiostro.

Santa Teresa d’Avila, di quasi trent’anni più di lui, affidò al giovane prete fra’ Giovanni della Croce la confessione e la direzione spirituale per le sue monache, sicura che l’avrebbe aiutata a riformare il monastero.

Se la santa spagnola godeva degli appoggi dei potenti di Spagna per evitare la rappresaglia delle famiglie che avevano monacato le figlie solo per opportunismo e che mal tolleravano le austerità del Carmelo riformato, Fra Giovanni della Croce si ritrovò invece nel mirino di mondani e sedentarizzati religiosi e corrotti familiari.

Venne accusato di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e incarcerato in un convento a Toledo. Gli lasciarono in mano solo il breviario. Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e molto freddo. Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento di sofferenza (flagellazione) ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.

Oggi sarebbe inconcepibile qualcosa del genere, ma all’epoca, nel nome degli esaltatori del barocco e del periodo della Controriforma, venivano calpestati i diritti fondamentali dell’uomo e il Vangelo stesso per opera di uomini che di appartenenza alla Chiesa avevano solo la tonaca.

Giovanni sapeva che anche nella notte della prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.

E il miracolo avvenne. In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di collasso psico fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce (possiamo immaginare per un “input” dall’alto) compose, con materiale biblico, le più calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli. Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui, fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.

È stato ed è un maestro di mistica perché fu lui stesso, nelle vicende gioiose e tristi della sua vita, un mistico. La fatica della salita del monte del Signore e la notte oscura delle difficoltà spirituali in questa aspra ascesa Giovanni le conosceva per esperienza. Ora, da essa arricchito e maturato, la proponeva agli altri, a noi.

Per Giovanni della Croce l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui. Questo ritorno verso Dio egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e nella sua gloria. Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza le due fasi o tappe, della educazione dei sensi (notte dei sensi) e del rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito) ambedue esperienze misteriose e dolorose di spoliazione interiore.

Con la notte dei sensi (attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle cose sensibili, dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e gaudente. L’uomo dei sensi e quello totalmente prigioniero di un’unica prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del Vangelo.

Con la notte dello spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio, attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo. Si tratta del passaggio doloroso e lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”, da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un morire per rinascere in Cristo.

Alla vigilia dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente la vita, qualora fosse stato preso.
Le sofferenze inaudite di 9 mesi di carcere non furono vane. Infatti, due anni dopo, i Carmelitani Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia. Giovanni della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino alla morte.

Giovanni della Croce parla di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a Dio), di salita, di notte oscura, tutta una terminologia che caratterizza la vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo nelle proprie azioni e decisioni), un impegno serio, una fatica dura, una ascesi costosa, graduale e continua… che non si può realizzare dall’oggi al domani. Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano tanto… che vorrebbero essere santi in un giorno”. Non è possibile. Allora come oggi. Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a lasciare tutto e a voler essere niente:

“Per giungere dove non sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.

Naturalmente per Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia ma amore. Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di amare Qualcuno. Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità. Amore è la parola decisiva: amore di Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica). E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.

Ad una monaca che gli aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose:

Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore”.

      Un consiglio decisamente valido ancora oggi, per tutti.

Fra AMAB

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