Non privatizzate la felicità!

La felicità non è mai un affare privato. Chi crede il contrario è come colui che ha fatto un investimento fallimentare. La felicità, infatti, non è mai una vicenda privata: essa si realizza sempre in una prospettiva relazionale. Non è una condizione facile da realizzare, notava già a suo tempo Aristotele, ma è indubbio che felicità e amicizia sono strettamente legate. È vero che la concentrazione sull’Io che la società dei consumi continua a promuovere avvelena in radice il cammino verso la felicità. Purtroppo, anche le comunità cristiane sono state infettate dal virus dell’individualismo. 

Lo ha denunciato Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi: «Come ha potuto svilupparsi l’idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la ‘salvezza dell’anima’ come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?» (n. 16). Una Chiesa affetta da individualismo non solo rischia di perdere la sua forza profetica, ma diviene complice di una società disgregata. Bauman, nel suo intervento all’incontro di preghiera per la pace tenutosi ad Assisi nel settembre del 2016, diceva: La storia dell’umanità ha centinaia di migliaia di anni e può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è l’espansione del pronome personale «noi». Un certo numero di persone ha usato il termine noi. Un numero di persone che è cresciuto in modo graduale e costante. Gli antropologi sostengono che inizialmente si trattava di un gruppo di 150 unità. Tutto il resto poteva essere riassunto con la parola «altri». Il resto erano persone che non erano noi. Un numero che doveva essere necessariamente limitato. Col tempo questa cifra è aumentata, venne l’epoca delle tribù, delle prime comunità che erano comunque sempre un noi. Persone che non si conoscevano personalmente. Poi c’è stata l’epoca delle nazioni-stati e degli imperi ed oggi posso affermare che ci troviamo in un punto tale di questa catena di eventi che non ha precedenti. La globalizzazione ci ha ravvicinati in un unico «noi»: una sola umanità. Eppure sembra che il «noi» si sia impoverito della sua forza. Anzi, che sia crollato. C’è bisogno, e con urgenza, di inventare una nuova fraternità. È la sfida più alta che abbiamo di fronte. Ai «mercati senza frontiere» deve fare da contrappunto una «fraternità senza frontiere». Come integrarci, restando differenti? Come far subentrare l’amore per la convivenza tra diversi alla paura di convivere con coloro che sono diversi da me? È una sfida che coglie in profondità la ragione stessa dell’umano.

Fra AMAB ?

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