Il perfezionista brontolone

Mi è capitato più di una volta di ragionare con qualche fedele attento sulla figura del fratello maggiore del figliol prodigo.
Sorprende la condanna di Luca nei suoi confronti in contrasto con la sconfinata benevolenza del Padre verso il figlio più giovane, quello che lo aveva abbandonato dilapidando  l’eredità spettantegli benché meno consistente rispetto al lascito che la tradizione ebraica accordava al primogenito maschio.
Siamo commossi dal perdono del padre che scrutava trepidante l’orizzonte in attesa di una ritorno e siamo sorpresi per l’indignazione del fratello maggiore primogenito che si sente trattato ingiustamente, non per una inadeguata retribuzione nei suoi confronti, ma per una mancata punizione nei confronti del cadetto.
Da sempre i commentatori della Bibbia e gli studiosi di morale hanno visto nel figlio più grande la figura del perfettista o del moralista.
Consapevole di aver perduto la gioia, il moralista vorrebbe riconquistarla con le proprie forze. Ma non può, perché l’essenza della gioia è l’essere amati e questo non possiamo darcelo da soli in alcun modo. La cosa più essenziale della nostra vita è inesorabilmente e irrevocabilmente nelle mani di un altro, dunque nessuno può pretendere di essere autosufficiente. Il moralista cerca di sottomettere la propria natura decaduta a forza di braccia, per così dire, ma la natura non può sottomettere la natura ed egli diventa simile a colui che cerca di strapparsi dalle sabbie mobili afferrandosi per i propri capelli, come nella favola del Barone di Münchausen. La conseguenza di questa impossibile pretesa è un uomo che vive come con il coltello tra i denti, sempre in lotta, mai in pace, perché è diventato nemico di se stesso. Non potendo accettare la sua fragilità e la sua povertà, finisce con il non sopportare più i propri difetti. Non potendo sottomettere la propria natura, si condanna a vivere sotto lo sguardo di un gendarme che gli proibisce perfino di respirare. Nasce allora l’esigenza di una legge totalizzante, che normi anche il più piccolo comportamento, nella ricerca ossessiva del gesto perfetto, senza rendersi conto che la perfezione non sta nel gesto, ma nell’attitudine del cuore.
Si avviluppa così, il moralista, in una rete dalle maglie sempre più strette che lo stringono da ogni parte. Sperimentando la sua incapacità, cercherà di rimediare al proprio limite legandosi sempre più strettamente in regole e precetti che non faranno altro che moltiplicare in lui il senso del fallimento. Per questo nell’intimo della sua coscienza non può mai essere soddisfatto, mai felice, perché la nudità che sperimentiamo dopo il peccato ha posto in noi un istinto insopprimibile, più forte di qualsiasi cosa: l’istinto di autoconservazione, l’imperativo «salva te stesso!», che è l’ultimo appello della natura umana. Così che l’individualismo, il pensare prima a sé, non può mai del tutto essere represso e, cacciato dalla porta, rientrerà inevitabilmente dalla finestra, in una forma o nell’altra: si possono imitare gli atti dell’amore, ma non ci si può forzare ad amare! Solo la Grazia, cioè l’amore gratuito del Padre, può sottomettere la natura, ma questo è proprio ciò che il moralista non vuole. Egli infatti vuole meritare Dio, perché la sola lingua che conosce è quella del merito, tanto gli sembra impossibile che si possa essere amati gratis! La conseguenza è che, se pure è capace di imitare formalmente gli atti dell’amore, come il figlio maggiore della parabola sarà pieno di un sordo rancore verso i deboli, i peccatori, quelli che non ce la fanno e non sarà veramente capace di perdono.

Fra AMAB ?

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