Il modello di relazione cristiana contro il razzismo

Era sul ponte Amerigo Vespucci di Firenze come posto sbagliato al momento sbagliato Idy Diene, un senegalese cinquantaquattrenne che vendeva ombrelli ai turisti nelle uggiose giornate d’inverno.
Un uomo con la sua storia, la sua dignità, che nel 2001 pensò di lasciare il suo villaggio di Morola per far coincidere lo sbarco nel nostro Paese con quello del suo lunario e della sua numerosa famiglia.
Il 5 marzo 2018 è stato ucciso dai colpi di pistola di uno squilibrato sessantacinquenne, Roberto Pirroni, che aveva tentato qualche momento prima il suicidio. In preda alla disperazione e in stato confusionale quell’uomo sceso in strada con l’arma in pugno avrebbe ucciso il primo malcapitato a tiro, qualunque fosse stata la sua nazionalità, sesso, età, condizione e colore della pelle.
E’ capitato a Idy Diene.
Il triste episodio sarebbe rimasto un semplice fatto di cronaca se la comunità dei connazionali della vittima non avesse reagito violentemente e collettivamente intentando una guerriglia urbana nella città del Rinascimento.
Ci chiediamo cosa sarebbe successo in Senegal se un gruppo di italiani avesse bloccato le strade di Dakar e insultato e sputato il suo primo cittadino per l’uccisione accidentale di un loro connazionale…
La riflessione che s’impone è sulla sfida della multietnicità che interroga il mondo contemporaneo globalizzato mentre gli ordinamenti faticano a trovare risposte adeguate.
Il movimento migratorio di questi ultimi anni ha visto la frontiera mediterranea del nostro Paese come porta privilegiata dei senza visto in Europa. Se sulle sponde del Mare Nostrum si è riconfermata l’indole solidale e ospitale di sempre degli italiani, le speculazioni economiche indotte da Bruxelles e quelle politiche prodotte dai populismi nostrani non sono riuscite ad andare oltre l’assistenzialismo per disperati rifugiati o speranzosi avventurieri.
Come sostiene il politologo nippo-statunitense Francis Fukuyama quando si spingono gli immigrati a cercare welfare invece che lavoro “si contribuisce direttamente ad indurre un senso di alienazione e disperazione”.
Quanto all’integrazione degli immigrati, l’analisi delle soluzioni giuridiche evidenzia una grande varietà di approcci o di modelli. Risposte articolate e diverse, se non anche contraddittorie, spesso convivono all’interno degli stessi sistemi generalmente “orientati” all’ideologia multiculturalista o a quella assimilazionista.
Verso la fine degli anni Ottanta si parlava molto di multiculturalismo per indicare una società dove più culture, anche molto differenti, convivono rispettandosi reciprocamente fra loro. La soluzione multiculturale al problema della convivenza sta nel permettere a ogni singola cultura di esprimersi all’interno dei limiti che sono determinati dalla cultura stessa, per i quali ciascuna è assoluta, nel senso di ab-soluta, cioè sciolta dall’onere di relazionarsi con le altre. Emblematica è la politica francese: le culture possono vivere solo nell’ambito del privato familiare o di gruppi ristretti, dal momento che la laicité non consente alcuna forma di visibilità a segni e simboli che identificano una cultura e una religione.
Esempio tipico è la legge 228 del 2004, la famosa “legge sul velo”. Secondo i suoi critici, il multiculturalismo rischierebbe di creare frammentazione sociale, separatezza delle minoranze, una forma di relativismo culturale acritico e asettico. Come ideologia e dottrina politica, esso si basa su un immaginario collettivo (tutti differenti, tutti uguali) secondo il quale ogni cultura deve essere considerata pari a ogni altra. In linea con tale impostazione nei Paesi anglosassoni alcuni reati contro la persona vengono ormai depenalizzati o trattati con esenzioni di pena se commessi in base a consuetudini di culture particolari che giustificano quei comportamenti.
Come il razzismo, tuttavia, anche il multiculturalismo seleziona ciò che divide i gruppi sociali invece del loro intrinseco rapporto e lo rende “naturale”, oggettivo, immutabile. Basti pensare alla logica del sistema sudafricano dove gli studiosi fornirono le basi ideologiche per il regime dell’apartheid e la divisione del Paese. A tali sconfortanti conclusioni il multiculturalismo arriva partendo dal presupposto che per governare meglio le relazioni bisogna tutelare le culture “altre” o, viceversa, le “nostre”. Gli individui sono così visti come portavoci di una cultura, ogni cultura si identificherebbe con un popolo, e ogni popolo pretenderebbe un riconoscimento sulla base della propria univoca identità. In realtà, concludono i critici, queste assunzioni si fondano sul nostro etnocentrismo, che vede la pluralità, il cambiamento e la libertà come risorse solo quando pensiamo alla cultura occidentale, mentre agli altri non rimane che il destino d’essere sovra-determinati dalle rispettive culture, entità statiche e prescrittive. Accantonato il multiculturalismo, lo si è sostituito con il temine intercultura o interculturalità.
La dinamica è differente.
Ne parlò Benedetto XVI nel volo che da Roma lo portava a Cotonou in occasione del suo Viaggio Apostolico in Benin il 18 novembre 2011: “… è importante nell’inculturazione non perdere l’universalità. Io preferirei parlare di interculturalità, non tanto di inculturazione, cioè di un incontro delle culture nella comune verità del nostro essere umano nel nostro tempo, e così crescere anche nella fraternità universale; non perdere questa grande cosa che è la cattolicità, che in tutte le parti del mondo siamo fratelli, siamo una famiglia che si conosce e che collabora in spirito di fraternità”. L’interculturalità dall’ambito pedagogico e scolastico, nella forma di “educazione interculturale” ha poi trovato impiego autonomo nel dibattito filosofico e persino teologico per quanto riguarda la Pastorale missionaria.
Questa nuova categoria propone un progetto di interazione fondato sull’idea che le culture si aprano reciprocamente e apprendano le une dalle altre in un’interazione dinamica, in una specie di interscambio creativo, senza perdere la propria identità. Ciò è capace di promuovere il rispetto del pluralismo (come vuole anche l’approccio multiculturalista) senza però rinunciare alla possibilità di trovare momenti d’intesa e livelli di armonizzazione tra le differenze valorizzando maggiormente le più significative esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra culture, poiché da esse si possano ricavare utili insegnamenti, validi anche per il presente. Applicare quest’ottica significa considerare la migrazione secondo una prospettiva di tipo relazionale, che tiene conto della capacità sia dei migranti sia della società di accoglienza di confrontare e scambiare, su una base di sostanziale parità e reciprocità valori, culture, schemi di comportamento.
Come dice il sociologo Pierpaolo Donati la sociologia relazionale parte infatti dal presupposto che “all’inizio c’è la relazione”, ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale’.
L’antropologia cristiana, quindi, collaudata dall’esperienza della pastorale missionaria e dalla prassi sempre più frequente delle comunità religiose e dei presbitèri multietnici può fornire alla comunità civile nazionale in contesti plurali il modello di una pacifica e costruttiva coabitazione all’interno di un territorio.

Fra AMAB

Idy Diene

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *