Morire a se stessi

Il mese di novembre è tradizionalmente dedicato alla preghiera per i fedeli defunti.
La realtà della morte è sicuramente l’esperienza più misteriosa e dolorosa della nostra esistenza.
Essa ravviva la nostalgia dell’eternità essendo stato creato l’uomo per la vita.
La tradizione biblica riferisce della morte come conseguenza del Peccato Originale.
Il “Nuovo Adamo” – Cristo Gesù – con la sua morte sconfigge la morte.
A partire dall’evento della Redenzione la morte acquista un significato nuovo.
Un San Francesco d’Assisi può chiamarla sorella e l’allegoria patristica paragona il suo gelido bacio a una porta che ci spalanca verso l’eternità.
La morte pur ineluttabile non è la fine di tutto, ma l’inizio della vera vita in una condizione esistenziale non più pellegrina ma stabile e definitiva nella dimora eterna.
Nell’operetta “Il Contadino della Boemia” si parla di un singolar tenzone tra un vedovo affranto dalla scomparsa della moglie e la morte.
Giunti entrambi dinanzi al tribunale di Dio per un giudizio dirimente viene loro fatto capire che la vita delle persone care ci è data in custodia e che la morte stessa non ha l’ultima parola. L’uomo non è il proprietario della vita e tampoco lo è la Morte.
La preghiera di suffragio, il senso del sepolcro, il pellegrinaggio al cimitero… per i cristiani assumono un valore e un significato di comunione con gli estinti perché “l’amore è forte come la morte” (Ct 8,6).
Il rapporto d’amore con Dio non si interrompe mai, nemmeno nella morte.
Joseph Ratzinger nei suoi saggi sull’Escatologia, cioè la branca della Teologia che studia le realtà ultime, l’Aldilà, i Novissimi, da un’interpretazione dialogica della fede biblica nella risurrezione: « L’uomo non può sparire totalmente, perché è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni amore anela all’eternità, l’amore di Dio non solo la brama, ma la realizza e la impersona».
La saggezza antica ci ha lasciato una formula estremamente sintetica: «Come si vive, così si muore».
L’augurio è il poter vivere nel Signore, morire nel Signore e risuscitare nel Signore.
Morire a se stessi significa infine il non prendersi troppo sul serio.
Maestri di vita spirituale così come acuti studiosi della psiche umana hanno da sempre sostenuto che il saper ironizzare su se stessi sia segno di maturità ed equilibrio interiore.
Lo sapevano già i Padri del Deserto e in modo particolare l’abate Macario quando al novizio che gli chiese come ottenere la salvezza rispose: «Recati al sepolcreto e insulta i morti». Il monaco andò, schernì i morti e scagliò delle pietre, poi tornò a riferire all’abate. Quello domandò: «E loro non hanno detto nulla?». Rispose: «No, nulla». L’abate allora disse: «Torna là domattina e lodali!». Il monaco fece come gli era stato detto e lodò i morti: «Oh, voi apostoli, santi, giusti…». Poi si ripresentò all’abate che gli domandò: «Ti hanno risposto qualcosa?». Disse: «No, nulla». Allora il vecchio saggio lo istruì: «Hai visto? Prima li hai insultati e non ti hanno dato risposta; poi li hai lodati e non hanno detto nulla. Così devi fare anche tu, se vuoi ottenere la salvezza. Diventa come un cadavere, non badare né alle offese né alle lodi che gli uomini possono rivolgerti, proprio come i morti, e sarai salvo!». (Apofìt. 476)

fra AMAB

 

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