Un anno fa un’amica mi aveva parlato con entusiasmo di Elena Ferrante.
Nell’inflazione dell’ascolto e delle letture sacerdotali non avevo trovato il tempo da dedicare alla critica letteraria sulle opere della scrittrice napoletana sulla cui vera identità è stato posato un velo di mistero come quello del Cristo della Cappella di Sansevero.
A Napoli le opere d’arte non fanno solo storia ma diventano leggenda come la vita di due bambine, Lila e Lenù, protagoniste della tetralogia inaugurata con il romanzo “L’amica geniale” che dalla carta è passato allo schermo proprio in questi giorni permettendo alla RAI di assicurarsi per la prima visione TV uno share del 30% con sette milioni di telespettatori.
Anche se non è dato conoscere il suo volto né i dettagli della sua vita, la voce narrante di Elena Ferrante è quella di una donna che racconta rapporti soffocanti, abbandoni, l’amore-odio tra genitori e figli. Attraverso gli occhi di due amiche.
Racconta vicende e luoghi che conosco l’opera di Elena Ferrante. Riporta sensazioni che ho vissuto, pensieri che hanno attraversato la mia mente.
Descrive personaggi che ho incontrato, sebbene quelli che popolano la mia vita abbiano avuto altri nomi, altre biografie, vissuto altri tempi.
Napoli, anni ’50. Elena Greco, detta Lenù e Raffaella Cerullo, detta Lina, sono due amiche che provengono da famiglie modeste, di uscieri e di “scarpari”. Condividono l’infanzia e l’adolescenza in un rione popolare di Napoli dove si uccide e si pratica l’usura, «si può morire di cose che sembrano normali», ma si fanno anche gare a chi sa computare più velocemente. Lenù e Lina apprendono tra i banchi di scuola che l’istruzione e la cultura sono un modo per distinguersi dalla “folla”, per emanciparsi, per sottrarsi a un destino già segnato dai propri genitori, a una vita fatta di stenti, di disagi, di sopraffazione, di miseria. Scoprono che l’immaginazione aiuta a far accettare “l’insostenibilità” che avvertono nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade del rione. E’ la scrittura, in particolare, la forma dentro cui le amiche sperimentano la propria via di fuga. Tra le due, Lina rivela subito di essere la più dotata, la più geniale. Nei suoi elaborati, «non lascia traccia di innaturalezza, non si sente l’artificio della parola scritta», ha una «scrittura fluida e trascinante», che «rinforza la realtà mentre la riduce a parole, le inietta energia». Nella relazione tra Elena e Lina, e nel triangolo amoroso che le unisce al comune compagno delle elementari, il bello e carismatico Nino Sarratore, prende corpo tutta la gamma di sentimenti contraddittori che possono legare a Napoli, e di modi con cui ciascuno decide di fare i conti con quello che la città semina dentro. Una gamma che ha ai suoi estremi opposti «chi fugge e chi resta», entrambi segnati da una sorta di precarietà esistenziale perenne in cui nessuna scelta trova pace.
Durante un tentativo di fuga adolescenziale che ha tutto il sapore di un viaggio iniziatico in cui Lina trascina Elena, si arresta appena comincia ad avvertire le prime gocce di pioggia che preludono al temporale, e decide di non arrivare fino in fondo alla meta della loro corsa: quel mare che bagna Napoli ma che le due amiche non hanno mai visto prima. Comincia progressivamente ad abbandonare ogni desiderio o velleità esistenziale puntando sulla riuscita di Lenù, alla quale chiede con crescente ossessione e cinismo di continuare a studiare, a emanciparsi, e di farlo anche al posto suo. Si comporta come un genitore che spera che il figlio ottenga nella vita ciò che egli non è stato capace o non ha voluto chiedere a se stesso, salvo rinfacciargli in continuazione la distanza che inevitabilmente la sua autonomia porta con sé.
Si tratta di un sogno che ha attraversato l’Italia tutta e delle due tensioni rivoluzionarie che sono state carne e corpo del Novecento, quella comunista e quella femminista.
La Ferrante non è superficialmente generosa né vagamente illusoria con le sue personagge, anche se entrambe sono diversamente epiche e Lila, la più visionaria, combatterà la sua battaglia di cambiamento della realtà in cui è nata senza riuscire a modificarla come avrebbe desiderato e si sottrae ad essa senza farne il bilancio che invece avrebbe meritato. Ma si tratta della sua vita e della sua carne, fatta di persone e di amori, di bisogni che non riescono a divenire desideri, mazzate a destra e manca per fare strada al necessario, cui non rimane che la sottrazione quando non è più possibile altro.
La Ferrante si confronta con una misura della narrazione di tradizione europea più che italiana, perché è nella memoria storico-letteraria collettiva la mancata conclusione del ciclo dei vinti di verghiana memoria, che si interruppe al momento di misurarsi con la rappresentazione della borghesia e dell’aristocrazia italiana e delle loro responsabilità nel complesso processo storico dell’unità d’Italia, tradita nelle sue promesse costitutive. L’opera della Ferrante è volutamente meridionale e interloquisce simbolicamente con le tetralogie di Thomas Mann e di Antonia S. Byatt.
Si attraversa una seconda metà del Novecento in modo realistico come i maestri di “Ladri di biciclette” l’epoca del neorealismo e dell’epopea cinematografica italiana con registi del calibro di Rosellini che erano capaci di immortalare emozioni in ogni fotogramma.
La Ferrante sembra volerci lasciare la più bella storia dell’Italia dagli anni ’50 a oggi. Come nelle opere di Verga, viene descritto dalla parte dei vinti il sequestro Moro, il terrorismo, la fine del sogno della rivoluzione e della possibilità di cambiamento radicale dell’Italia mescolati alle vicende di vita delle due amiche, a volte più lontane tra loro, a volte più vicine, ma sempre specchio e misura l’una per l’altra, sempre dissonanti e però necessarie nella presenza e tanto più nell’assenza.
Al punto che in conclusione, in una vecchiaia che per molti versi si potrebbe definire triste quale è quella di un’Italia incapace di vivere il proprio presente proiettandolo nel futuro senza dimenticarsi il passato e ciò che si è pensato intensamente possibile, tutto quello che resta è proprio l’essere state bambine insieme e l’avere vissuto il sogno di divenire altro, diverse da ciò in cui si era nate, con quel misto di spavalderia, coraggio, terrore e incoscienza lucidissima che aveva contraddistinto entrambe.
Senza apparentemente nulla più da dare l’una all’altra e al mondo intero, proprio come il secolo di cui sono state protagoniste e da cui non riescono a congedarsi se non svanendo in un luogo indistinto.
Vi è qualcosa però nella conclusione che simbolicamente rimane tra le mani di chi legge: ovvero le bambole Tina e Nu da cui è iniziata la narrazione e il gesto sovversivo di coraggio irridente compiuto insieme dalle due amiche di salire le scale del camorrista locale e chiedergli conto delle loro bambole, sfidandolo pure se bambine, pure se femmine. Gesto apparentemente piccolo, ma compiuto insieme quanto ha significato nel corso della storia per le loro vite, la possibilità di cambiarle e con loro il mondo cui hanno appartenuto.
La scrittura, la letteratura, possono fare questo, illuminare l’oscurità, per rimettere in gioco invenzione, sovversione irridente e anche se non osiamo pensarlo, rivoluzione a partire da sé e dalle donne e uomini con cui condividiamo questo difficile presente.
Fra AMAB