Perché è successo questo proprio a me?

La pena per se stessi, è uno dei narcotici non farmacologici più distruttivi. Crea dipendenza, da piacere solo momentaneo e separa la vittima dalla realtà” (John W. Gardner).

Non c’è giorno più evocativo del Venerdì Santo per parlare della sofferenza umana.

Al cuore della religione cristiana c’è la croce, il simbolo di un amore che dà senso al dolore. Gesù non viene nel mondo per abolire la sofferenza, ma per assumerla e trasformarla in mezzo di salvezza. Le tappe del suo calvario illustrano i bisogni, gli stati d’animo e gli atteggiamenti sperimentati da quanti si trovano a vivere i loro diversi Getsemani.

È molto probabile che di fronte ad un fatto inaspettato, dalle ripercussioni emotive fortemente negative, tutti ci si sia posti prima o dopo la domanda: “Che disgrazia! Perché è successo questo proprio a me?” o forse: “Che sfortuna che ho, mi succede tutto a me!”

Queste e altre frasi simili sono rappresentative di un’ampia gamma di sentimenti negativi come la rabbia, la disperazione, la rassegnazione, la perdita di speranza e l’autocompassione.

In alcun momento, quando ci sentiamo particolarmente vulnerabili, non sempre riusciamo a trovare l’appoggio o la comprensione di tutti coloro che ci stanno vicino; da qui si capisce che di fronte a certe situazioni difficili sia normale che si provi pena per noi stessi. Ma…ci sono persone che eccedono in autocompassione e questo fa sì che finiscano immerse in uno stato di disperazione generata dalla percezione costante della loro incapacità. In poche parole: iniziano a considerarsi dei perdenti e in seguito sono incapaci di smettere di fallire: il looser.

La domanda più comune è: “Cosa ho fatto per meritarmi questo?”. Una persona con un certo determinato equilibrio psicologico, conoscitrice di se stessa e del suo ambiente, tenterebbe di trovare delle spiegazioni e delle cause nel suo comportamento e nelle sue credenze, tenterebbe di capire come la sua azione sull’ambiente circostante ha prodotto o facilitato la situazione difficile e, a meno che non sia impossibile, tenterebbe di essere elastica nell’affrontare l’accaduto. Questa persona presenta un locus di controllo interno; come dire, cerca la sua parte di responsabilità in ogni situazione in cui si viene a trovare.

Tuttavia, altre persone possiedono un locus di controllo esterno, mettono la responsabilità dell’accaduto fuori da se stesse; la colpa è sempre degli altri, e quindi loro sono solo vittime (del destino, della sorte, della società…) alle quali non resta altro che autocompatirsi.

Le persone che si autocompatiscono continuamente sono convinte di essere le uniche che soffrono i dissapori della vita, che il loro destino non gli riserverà nulla di buono e, di fronte alla minima difficoltà o contrarietà, reagiscono con una lunga lista di reclami e lamenti che non servirà loro in alcun modo per affrontare le problematiche. Insomma, sono specialisti nell’utilizzare “l’astrazione selettiva”.

Qual è il meccanismo dell’astrazione selettiva? Concentriamoci su un esempio: a ognuno di noi accadono quotidianamente una serie di eventi che hanno effetti negativi e positivi. Le persone che si autocompatiscono smettono semplicemente di apprezzare gli aspetti positivi, la vita acquista toni grigi. Naturalmente, questo meccanismo è eminentemente inconscio ed è dovuto a che, nel suo ruolo di vittima, la persona è sempre concentrata nell’osservare gli aspetti negativi di ogni fatto che gli succede.

Questo non significa che queste persone non vivano realmente delle vicende traumatiche o di forte impatto emotivo ma che la strategia che assumono per “affrontarle” è l’autocompassione che li conduce all’immobilismo e alla disperazione. Fino a che, con il passare degli anni, quella che era una strategia specifica di fronte a fatti isolati si converte in uno stile che si utilizza sempre nell’affrontare qualsiasi evento e, ciò che è più importante: che condiziona tutta la loro vita.

Così, l’autocompassione nasconde vari pericoli:

– Mina la fiducia in se stessi

– Porta alla solitudine e all’isolamento dal resto delle persone

– Facilita l’immobilismo e la mancanza di creatività

– Non ci permette di analizzare la vita da diverse prospettive e quindi terminerà per precluderci molti percorsi che portano al successo

Tutti viviamo dei momenti tristi, alcuni più difficili da affrontare, altri più semplici; la chiave per uscire rafforzati da questi è di comprenderli come delle esperienze di vita dalle quali usciremo rinvigoriti. È difficile? Sì, non c’è dubbio, ma non impossibile sempre che amiamo la vita e desideriamo migliorare come persone.

Il dolore alla fine rimanda alla condizione umana: come un albero rimane legato alla terra attraverso le radici che ne richiamano l’origine e l’appartenenza, e cresce nella misura in cui si espande verso la luce, così l’uomo è chiamato a riconciliarsi con la fragilità della sua natura e a orientarsi verso il cielo per la sua realizzazione più profonda. La vita sulla terra non è un destino, ma un pellegrinaggio che guida verso un destino. Il riscatto del dolore non dipende dall’illusione di eliminarlo, ma dalla disponibilità a renderlo fecondo, permettendo che dalle sue ceneri emergano frammenti di speranza, spunti di saggezza, una rappacificazione più autentica con la provvisorietà dell’esistenza. La stagione del dolore ha bisogno di tempo prima di trasformarsi in stagione di crescita e di speranza; spesso si rende necessaria l’accettazione della confusione e dello smarrimento come tappa intermedia prima di conseguire una prospettiva diversa e la pace interiore. La fede troppe volte messa in crisi dall’esperienza del dolore e il recupero della stessa può esigere tempi lunghi. Quando la si ritrova, con l’aiuto anche della nostra presenza discreta e accompagnatrice, è una fede purificata, più genuina, mentre aumenta in noi la capacità di capire quelli che soffrono e il desiderio di renderci utili. Quasi senza accorgerci, è cresciuta anche la nostra statura morale e la nostra maturazione.

 

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