L’AVARIZIA

Alberto Sordi interpreta “L’Avaro”

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PAROLA DELLA XVIII DOMENICA T.O. ANNO C

 INTRODUZIONE

Un giovane desidera entrare in monastero. Il maestro dei novizi lo interroga per sapere se è veramente deciso ad abbandonare il mondo: Se tu avessi tre monete d’oro le daresti ai poveri? Di tutto cuore, padre. E se avessi tre monete d’argento? Ben volentieri. E se avessi tre monete di rame? No, padre. E perché?, domanda il monaco stupefatto. Perché le ho!

Possedere è legittimo. Il problema inizia quando il danaro e i beni posseggono noi. O ci ossessionano. Il denaro che lo spilorcio accumula senza sosta è destinato ad essere conservato, a non essere mai speso: «Se spendo il denaro – dice – viene meno il mio potere e non posso più consolarmi nella certezza che quanto ho accumulato mi servirà in qualsiasi momento».

La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro infatti sfida Dio, giacché ne occupa il posto: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24), dice Gesù. Se noi fossimo davvero liberi nei confronti del danaro, ci risulterebbe così difficile pagare le imposte o le contravvenzioni?

 CHE COS’È L’AVARIZIA?

Come l’orgoglioso, il lussurioso ed il goloso, anche l’avaro è definito peccatore e vizioso non perché ama un qualche bene di questo mondo, ma perché il suo amore per questo bene è smisurato. Massimo il Confessore spiega che il peccato inizia non con il possesso del denaro, ma con il suo “cattivo uso”, quando cioè il danaro cessa di essere un mezzo e diventa un fine (cf Centurie sulla carità, III, 4) . «Io sono ciò che ho», ripete di sé l’avaro, e pone nell’avere la radice del suo essere. Di ogni realtà egli cerca il dominio esclusivo, economicamente quantificabile, e non un gioioso godimento. Esistono due specie di avarizia: materiale e spirituale.

L’avarizia materiale

Louis de Funès, il grande comico francese, non pagava mai il taxi in moneta ma con un assegno. «Aveva infatti notato – racconta il commediografo Pierre Ricard – che i tassisti invece di riscuotere gli assegni preferivano conservarli per mostrarli ai colleghi: Hai visto? È un assegno di de Funès. Risultato: Louis risparmiava denaro». Ciò che è vero per il denaro vale anche per ogni altro genere di beni: mobili, macchine, abiti, scarpe, francobolli, vecchi libri,… li si accumula e li si ricerca in maniera sfrenata, come se potessero appagare la sete che ci divora. Alla base di tutto ciò, come radice, troviamo l’amore per il danaro, senza il quale nessuno di questi beni sarebbe accessibile. I Padri della Chiesa distinguono tre momenti in questa avarizia materiale:- l’attaccamento del cuore al danaro, cioè l’avarizia in senso proprio;- il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la cupidigia o l’avidità;- l’ostinazione nel possesso, cioè l’assenza di generosità. E Geoffrey Chaucer, autore inglese del XIV secolo, afferma nei suoi “Racconti di Canterbury”: «La differenza fra l’avarizia e la cupidigia è questa: la cupidigia consiste nel bramare quello che non si ha e l’avarizia sta nel tenere e serbare quello che si ha, senza giusta necessità» (Milano 1981, p. 390).

L’avarizia spirituale

La possessività non si riferisce solo al denaro. Essa si può riferire anche al tempo. Balzac diceva del padre di Eugénie Grandet che «sembrava economizzare tutto, anche il movimento» (Eugénie Grandet, Omnibus, 1999, tome I, p. 411). Al contrario, Santa Teresa di Gesù Bambino offriva a Dio il tempo delle sue giornate perché ne potesse disporre a suo piacimento.

 La vita associativa e la vita politica conoscono personaggi che non arrivano mai a “staccare la spina” e a lasciare spazio ai più giovani. Nell’ambito del volontariato civile ed ecclesiale succede spesso di incontrare persone molto generose che diventano come ”proprietarie” delle loro responsabilità e si attaccano gelosamente al loro servizio e ai loro piccoli poteri come l’edera si abbarbica al muro. «Ci sono dei volontari – mi diceva un prete – che danno veramente tutto, salvo le dimissioni». Una tale possessività genera confusione, irritazione ed impazienza. San Francesco d’Assisi la denunciava frequentemente.

San Giovanni della Croce sapeva riconoscere nei fedeli i segni di cupidigia spirituale: evoca, per esempio, quelli che sono «insaziabili di libri che trattano di spiritualità». E precisa: «Ciò che rimprovero è l’attaccamento del cuore, l’importanza attribuita alla fattura o al numero e alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie alla povertà di spirito» (La Notte oscura, L. 1, c. 3, n. 1).

 

L’AVARIZIA SI NASCONDE

Il peccato rende ciechi. E l’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che non si confessava il peccato di avarizia: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore. Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una solida posizione. Non si possiede mai abbastanza; si trova sempre un motivo per avere di più: quelli poi che sono avari più degli altri non ammetteranno mai di esserlo, e il bello è che, in coscienza, sono assolutamente convinti di non esserlo! L’avarizia è una febbre maligna, che più è forte e bruciante e più rende insensibili» (Introduzione alla vita devota, L. III, cap. 14).

Per l’avaro la mancanza di beni è tanto dolorosa quanto la privazione del mangiare per il goloso. Il denaro si riferisce alla nostra relazione alla sicurezza, che è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Dopo aver tentato diverse spiegazioni, nessuna delle quali però appare sufficiente – sete di potenza, volontà di accedere ad una condizione di super-rispettabilità dovuta al volume del conto in banca, riflesso che tenta di sostituire con il denaro qualità o nobiltà umane di cui ci si riconosce carente -, gli antropologi hanno dimostrato che è finalmente alla paura della morte che tenta di rispondere l’ossessione della fortuna economica. Risparmio maniacale, accumulo di beni: quali sintomi migliori per rivelare una oscura paura del domani, cioè della morte?

 

COME RICONOSCERE L’AVARIZIA?

Sei avaro «se desideri lungamente, ardentemente e con inquietudine i beni che non hai», scrive ancora san Francesco di Sales nella sua Introduzione alla vita devota.

Desiderare lungamente

«Dare è un verbo per il quale ha una tale avversione che non dice mai “Vi do il buongiorno”, ma “Vi presto il buongiorno”, dice La Flèche del suo padrone Harpagon (Molière, L’Avare, Atto II, scena 4). L’avaro teme costantemente di non possedere abbastanza; dunque, tiene tutto per sé. E se dona qualcosa, lo fa con calcolo. Harpagon non smette di pensare ai soldi della sua cara cassetta, parla con loro, li conta e riconta, ossessionato dal desiderio di possedere sempre di più. 

Desiderare ardentemente

C’è dell’infinito nel desiderio di denaro. Si vuole sempre di più! «Ogni essere che possiede in abbondanza si considera ancora troppo povero», sottolinea acutamente sant’Ambrogio (Naboth il povero, 50). E San Giovanni Crisostomo denuncia con vigore questa “bulimia dell’anima” che soffoca i cristiani: «Più essa si rimpinza di alimenti, più ne desidera. Spinge sempre i suoi desideri al di là di ciò che possiede» (Omelia sulla 2 lettera a Timoteo, VII, 2).3.

Desiderare con inquietudine

Il taccagno non ripone la sua fiducia in Dio ma nei suoi averi, non dorme tra due guanciali ma sul suo denaro, è inquieto e ansioso in permanenza. «Il ricco, anche quando non subisce alcuna perdita, teme di subirne», spiega ancora san Giovanni Cristostomo (Omelia sull’Epistola ai Romani, XXIV, 4), e aggiunge che una volta raggiunta la ricchezza permane «la preoccupazione di conservare tutto quanto si è acquisito con tanta fatica» (Moralia in Job, VI, 19). San Francesco d’Assisi temeva talmente la “febbre dell’oro” da proibire ai suoi frati di toccare anche la più piccola moneta. Perché, a forza di suscitare preoccupazione, il denaro accaparra lo spirito. E prima o poi giunge ad occupare insidiosamente il primo posto; ciò che è proprio dell’idolo.È opportuno qui riascoltare Gesù che racconta: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così, disse: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (cf Lc 12, 16-21).

 

L’AVARIZIA PECCATO CAPITALE

«Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi atti genera il vizio. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male. In tal modo il peccato tende a riprodursi e a rafforzarsi». Alcuni peccati «sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1865-1866).Figlie dell’avarizia sono, secondo San Gregorio Magno, l’insensibilità del cuore, come avviene per il ricco del vangelo, indifferente al povero Lazzaro che geme alla sua porta (cf Lc 16, 19-30); l’inquietudine nel possesso, come il ciabattino della favola di La Fontaine (Le savatier et le financier, L. 8, fable 2); la violenza nell’appropriazione (quante famiglie unite si sbranano al momento dell’eredità?); il furto e anche il tradimento (Giuda Iscariota tradisce il suo Maestro per trenta denari). Senza parlare della tristezza: «ché tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’anime stanche non poterebbe farne posare una», scrive Dante nella Divina Commedia (Inferno, canto VII, vv. 64-66). «Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti», ricorda ancora la Scrittura (Qo 5, 9). A proposito della tristezza dell’avaro, Giovanni Verga racconta nel suo Mastro don Gesualdo che quando il protagonista si accorge di essere malato decide di dare un ultimo saluto alle sue amate proprietà: «Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui» (IV, 4). L’avarizia è un fardello che appesantisce il cuore, ritarda la conversione, il cambiamento di vita, impedisce l’adesione a Dio. Nel Vangelo, un giovane mosso da un profondo desiderio di perfezione incontra Gesù, che lo guarda con amore e gli risponde: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri». A queste parole, il giovane se andò triste, perché aveva molti beni. E Gesù commenta: «In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli» (cf Mt 19, 16-23).Al di là della sfera personale, la cupidigia produce anche effetti devastanti su scala sociale: in Brasile, l’80% delle terre appartiene a meno del 10% della popolazione; le ricchezze di numerosi Paesi africani sono saccheggiate da qualche despota; quanti siti naturali nel mondo sono violati e danneggiati per procurarsi guadagni immediati? E poi: il fenomeno della mondializzazione invita ad interrogarsi. Se, come diceva Giovanni Paolo II, «sembra che … il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni» (Centesimus annus, n. 34), abbandonata a se stessa, senza regole etiche, una mondializzazione strettamente economica è preda di tutte le avidità e di tutti gli interessi (la crisi che stiamo attraversando anche in Europa ne è prova lampante…).

 

UN “DECALOGO” CONTRO L’AVARIZIA

Si tratta di lavorare in positivo (dare giusto valore al denaro) e in negativo (praticare il controllo delle proprie brame e, quando necessario, anche la rinuncia).

Non sottovalutare questo vizio

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede», dice Gesù (Lc 12, 14). «Nessuno consideri l’avarizia come malattia di poca importanza – raccomanda Giovanni Cassiano. Chiunque abbia ceduto anche una sola volta al desiderio di una piccola somma di danaro ed abbia permesso all’avarizia di mettere radici nel suo cuore, non può non essere presto infiammato da un desiderio più violento» (Istituzioni cenobitiche, VII, 20).

 Ricordarsi l’origine dei beni

Il denaro e la proprietà non vengono da noi e non sono per noi. Certo, si devono al nostro lavoro ma, in ultima analisi, vengono da Dio. «L’avaro – diceva il Curato d’Ars – è come un porcellino che mangia le ghiande senza sollevare la testa per sapere da dove vengono» (Pensieri).

«Dov’è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21), dice ancora Gesù. San Francesco di Sales propone questa immagine: «Gli alcioni fanno i nidi in forma di palma e vi lasciano soltanto una piccola apertura in alto. Li piazzano sulla riva del mare e li costruiscono così solidi e impermeabili che se anche le onde dovessero travolgerli, le acque non penetrano; anzi rimangono sempre a galla in mezzo al mare, sul mare e padroni del mare. Così deve essere il tuo cuore, aperto soltanto al cielo, e impenetrabile alle ricchezze e ai beni caduchi» (Introduzione alla vita devota, L. III, cap. 14).

 Ricordarsi il fine dei beni

Il denaro ed i beni non sono destinati unicamente a colui che li ha guadagnati: «L’uomo – afferma il Concilio Vaticano II – usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (Gaudium et spes, 69). E il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta: «La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri e, in primo luogo, con i propri congiunti» (n. 2404).

 Praticare la sobrietà

Felice colui che si accontenta di quello che ha; «infatti non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via» (1 Tm 6, 7). E siccome l’attività professionale è il primo mezzo di rimunerazione, è importante sapere anche mettere un freno alla cupidigia onorando il riposo di cui abbiamo bisogno, specialmente quello domenicale: il giorno festivo «sospende le attività quotidiane e concede una tregua. È un giorno di protesta contro le schiavitù del lavoro e il culto del denaro», afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2172).

 Esercitare la fiducia

Dietro al bisogno di sicurezza si nasconde spesso una non confessata mancanza di fiducia, quasi una disperazione nella Provvidenza. Ora, l’accumulare fortuna è una sicurezza illusoria. Già abbiamo ricordato la storia di un uomo che ammassa ricchezze: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (Lc 12, 20). Tuttavia, abbandonarsi alla Provvidenza non significa non essere previdenti: ne andrebbe non solo della prudenza (economizzare per far fronte ad ogni evenienza imprevista), ma anche della giustizia (evitare il più possibile di essere a carico degli altri).

Praticare la generosità

Imparare a donare gratuitamente, senza indugio e senza restrizione. La Scrittura non cessa di ripeterlo: «Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio» (Es 22, 28); «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 28); «Date e vi sarà dato … perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38).

Ricordarsi dei poveri

Nella parabola del ricco cattivo, la Scrittura attribuisce un nome al povero (Lazzaro), ma non al ricco (Lc 16, 19-30). La sua esistenza si riduce infatti a quella dei suoi beni. Alcune illustrazioni della parabola rappresentano quest’uomo seduto a tavola in atto di guardare il povero alla porta (cf Vat. Lat. 39, f. 57v. e 58r.), sottolineando così la responsabilità del ricco che sa e non fa nulla. La sanzione sarà terribile: l’uno agonizzerà eternamente nella tristezza bruciante dello sheol; l’altro vivrà nella felicità del seno di Abramo. San Basilio di Cesarea scrive: «Da dove ti vengono, dimmi, queste enormi ricchezze che porti con te? È evidente che navighi nell’oro, ma da dove ti viene tutto questo? La verità è che le ricchezze ti si sono appiccicate addosso più tenacemente delle tue stesse membra. Lo prova il fatto che ti senti straziare se ti vengono sottratte, proprio come se fossero pezzi di carne che vengono strappati dal tuo corpo. Se avessi rivestito chi è nudo, se avessi condiviso il pane con l’affamato, se le porte della tua casa fossero state aperte a ogni tipo di ospite, se fossi stato padre per gli orfani e ti fossi curvato con pietà sugli ammalati, come potresti adesso sentirti rattristato a causa delle tue ricchezze?». E osserva ironico: «Che grande pazzia: quando era ancora mescolato con il metallo grezzo, l’oro veniva dissotterrato avidamente; adesso invece, che lo si è portato alla luce, lo si sotterra di nuovo!». Poi aggiunge: «La verità è un’altra: sotterrando il tuo oro, tu in realtà hai sotterrato il tuo cuore … Tu non conosci che una parola: “Non ho nulla, non ti do nulla perché sono povero”. Sì, tu sei povero, non possiedi alcun bene: sei povero d’amore, povero di bontà, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna» (Omelia sulla ricchezza (su Lc 12, 18), passim).

Essere concreto nel dono

Perché non riflettere ad inizio anno alla parte di bilancio da destinare ai diversi settori della vita? È l’occasione per fare una valutazione dei propri beni: ciò che non è servito durante un anno o più (abiti, utensili, mobili, veicoli) è veramente utile?

 Rovesciare le prospettive

Invece di promettere: «Farò beneficienza quando mi sarò assicurato il necessario» (ciò che non si farà mai perché le urgenze temporali divorano le migliori risoluzioni) è meglio dire: «Riservo tale percentuale del mio budget per il Signore e per chi è meno fortunato di me». «Nessuno è così povero da non aver niente da condividere e nessuno è così ricco da non aver bisogno di niente», soleva dire il Beato Giovanni Paolo II.

Meditare sulla croce

La Passione è la più grande forma di povertà e di distacco. Gesù accetta di essere spogliato delle sue vesti, in particolare della tunica senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo (cf Gv 19, 23); abbandona ogni dignità legata al vestito e anche quella ricchezza incomparabile che è il sostegno dell’umana amicizia: Pietro, Giacomo e Giovanni dormono durante la sua agonia al Getsemani (Mt 26, 36-46); gli altri apostoli «lo abbandonarono e fuggirono» (Mc 14, 50); è addirittura privato della consolazione del Padre suo, come testimonia quel grido straziante: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34). La contemplazione della Croce ci guarisce da un attaccamento smisurato ai beni terreni e ci salva dalle cupidigie sbagliate. Essa testimonia della infinita liberalità di Dio: donando la vita per noi, Gesù ha donato tutto (cf Gv 15, 13); lui che era ricco, si è fatto povero perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cf 2 Cor 8, 9).

 

IN CONCLUSIONE

«Il danaro è un buon servitore ma è un cattivo maestro», dice la scrittrice francese Françoise Sagan. Dopo aver enumerato gli effetti devastanti della passione per i soldi, san Giovanni Climaco dice : «Un piccolo fuoco è sufficiente per bruciare una gran quantità di legna; e con l’aiuto di una sola virtù si vincono tutte le passioni che abbiamo descritto. Questa virtù si chiama distacco: è generata dall’esperienza e il gusto di Dio e dal pensiero del conto che dovremo rendere all’ora della nostra morte» (La Scala santa, sedicesimo gradino, n. 26). Collocandoci di fronte all’infinito, di fronte alla morte, ogni cosa trova il suo giusto valore e, dunque, la sua giusta collocazione.

Una notte, un vecchio indiano raccontò a suo nipote una storia: «Figlio mio, la battaglia nel nostro cuore è combattuta da due lupi. Un lupo è maligno: è collera, gelosia, tristezza, rammarico, avidità, arroganza, autocommiserazione, colpa, risentimento, inferiorità, falso orgoglio, superiorità; è l’ego. L’altro è buono: è gioia, pace, amore, speranza, serenità, umiltà, gentilezza, benevolenza, immedesimazione, generosità, verità, compassione e fede». Il nipote, dopo averci pensato per qualche minuto, chiese al nonno: «Quale dei due lupi vince?». Il vecchio rispose semplicemente: «Quello che tu nutri».

Auguro a voi e a me di saper scegliere con sapienza quale lupo nutrire.

 

 

 

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