L’amministratore scaltro

Commento alla Liturgia della Parola della XXV Domenica T.O. (C)

La Liturgia della Parola odierna, attraverso Amos prima e Luca poi ci offre una grande riflessione sul nostro rapporto col denaro.


Già nell’Antico Testamento attraverso i Profeti veniva stimmatizzata la condotta dei commercianti fraudolenti che sfruttavano le necessità impellenti dei poveri sprofondandoli ulteriormente nella miseria (cfr. Am 8,4-7).
In Luca 16,1-13 Gesù ci presenta la parabola dell’amministratore infedele ma scaltro invitandoci a tesoreggiare piuttosto i beni celesti con la stessa abilità e creatività con la quale tanti si preoccupano del solo benessere materiale.

La parabola dell’amministratore disonesto è una delle parabole più conturbanti, se vengono fraintese; va dunque intesa bene.
L’amministratore agisce da «fronimos» (dice il testo greco), un vocabolo che indica la lucidità di chi avverte la gravità della situazione; la prontezza nell’affrontarla e il coraggio di attuarla. E il nostro amministratore è munito di tutte e tre queste qualità. È il modo in cui ha agito, l’impegno che ci ha messo, la sollecitudine con cui ha preso le sue drastiche decisioni, questo (!) il padrone (Gesù!) elogia. Ma aggiunge con amarezza: purtroppo i figli delle tenebre nei loro affari sono molto più solleciti e scaltri dei figli della luce, che non sono così risoluti e pronti e avveduti.
Gesù comanda di farsi degli amici con le opere buone, usando per il bene l’iniqua ricchezza. La ricchezza è detta iniqua perché accumulata malamente, sfruttando gli altri (ingiusta all’origine); o iniqua perché strumento per opprimere gli altri (iniqua nell’uso). L’insegnamento di Gesù si conclude con una massima quanto mai incisiva, lapidaria, che contiene un trattato sull’uso dei soldi. Nessuno può servire (rendersi schiavo di) due padroni, fra loro decisamente opposti e contrari, assolutamente diversi: Dio e la ricchezza. Se uno imposta la vita tutta e unicamente sull’accumulare ricchezza, inevitabilmente cancella Dio dal proprio vivere, pensare, operare.
L’uso smodato delle ricchezze e del denaro adultera i rapporti con gli altri, ci schiavizza e si traduce spesso in vizio capitale: l’avarizia.
Nell vita di S. Antonio celebre è il miracolo del cuore dell’avaro occorso in Toscana ai danni di un usuraio, del quale il chirurgo non trovò nel petto il muscolo cardiaco che venne macabramente rinvenuto nel suo forziere.
“Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 19-21).
L’egoismo che soggiace all’avarizia è davvero una grande maledizione perché gli egoisti non solo non amano gli altri, ma non amano neppure se stessi. Il materialismo poi non è altro che la negazione dello spirito perché è il risultato logico del pensare che al di là di questo mondo non ci sia proprio niente.
Ci sono due tipi di avarizia: una materiale ed una spirituale. Quella materiale, secondo i padri della Chiesa, si sviluppa in tre momenti distinti: l’attaccamento del cuore al denaro, cioè l’avarizia in senso stretto; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la cupidigia; l’ostinazione nel possesso che è mancanza di generosità.
La letteratura ci offre un quadro divertente dell’avaro. Moliere fa dire ad Arpagone: “vi presto il buongiorno” e lo mostra nel piacere di sentire il tintinnio delle monete nella sua cassetta, un po’ come zio Paperone nei fumetti.
L’avarizia spirituale è invece più subdola e quindi più difficile da riconoscere: la possessività non si riferisce infatti solo al denaro ma anche al tempo ed in ultima analisi a se stessi.

Santa Teresa di Gesù Bambino offriva a Dio il tempo delle sue giornate perché ne potesse disporre a Suo piacimento. Nel mondo del volontariato, e sto parlando quindi di cose positive, si osserva invece spesso qualcosa di diverso; capita infatti di incontrare persone molto generose che diventano come “proprietarie” delle loro responsabilità e si attaccano gelosamente al loro servizio e ai loro piccoli poteri come l’edera si abbarbica al muro. Ci sono dei volontari che danno veramente tutto, salvo le dimissioni. In altre parole si è volontari donando il proprio tempo, cioè se stessi agli altri, oppure il volontariato è una forma di lavoro il cui compenso costruisce il proprio ego?

I vizi capitali sono collegati tra loro e possono essere rappresentati come un albero con diversi rami, che sono poi i peccati generati dallo stesso vizio. Nel caso dell’avarizia questi rami sono: l’attaccamento a se stessi, la cupidigia, la violenza, il tradimento, la miopia spirituale, l’avidità e la superbia.
Questo peccato rende ciechi. E l’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che non si confessava il peccato di avarizia: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore.
Giovanni Verga racconta nel suo Mastro don Gesualdo che quando il protagonista si accorge di essere malato decide di dare un ultimo saluto alle sue amate proprietà: «Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco.
Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». L’avarizia è un fardello che appesantisce il cuore, ritarda la conversione, il cambiamento di vita, impedisce l’adesione a Dio.
Se la ricchezza diventa un idolo, che fagocita mente e cuore, corpo e anima, energie e volontà, tutto (tutto!) il resto conta più nulla: né Dio, né la coscienza, né gli affetti più cari, né i legami più stretti. Ma questo è il fallimento estremo, perché la morte strapperà tutto. Perché solo le nostre opere ci accompagneranno. Fatevi degli amici con la ricchezza, anche se disonesta. Usatela bene!

Tutti i Pontefici hanno proclamato la validità delle beatitudini, specialmente della prima (»Beati i poveri»). Ricordandoci che Gesù ha detto che non si può servire a due padroni, teniamo conto che il modo, con cui valutiamo e usiamo le ricchezze, è la cartina di tornasole per comprendere quanto è viva in noi la fede.  
Credo che tutti dovremmo convertirci: vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. E non solo, come singoli ma, soprattutto, come comunità e istituzioni.

Oggi papa Francesco che non solo predica, ma vive la povertà e vorrebbe che anche la Chiesa lo fosse. Condividiamo questa impostazione di Papa Francesco, oppure la riteniamo un’utopia come, purtroppo, tante altre cose che sta dicendo e praticando?

Fra AMAB

Una risposta a “L’amministratore scaltro”

  1. Spendida la Liturgia della Parola di oggi, offre lo spunto per una grande riflessione sulla relazione tra il denaro e la Fede. Profondo e illuminante il commento di padre Alfonso .

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