CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Riflessione sulla Liturgia della Parola Anno C
2Sam 5,1-3. Col 1,12-20. Lc 23,35-43.

L’anno liturgico si conclude con la solennità di Cristo Re dell’universo.
Nelle scorse domeniche, dopo la riflessione sui Novissimi (morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso, resurrezione, parusia…) la liturgia ci conduce all’esaltazione di Cristo che ricapitola in se tutte le cose in una nuova creazione per il Regno.
Benché gli ordinamenti politici della stragrande maggioranza dei Paesi non siano più fondati sulla monarchia, nell’immaginario collettivo è ben presente la figura del re quale sovrano che gode di un’autorità acquisita dal lignaggio nobiliare.

La prima lettura, tratta dal Secondo Libro di Samuele, in un’immagine bucolica ricorda tuttavia che per Israele  il compito primario dei re era di pascere il popolo, averne cioè cura, sia sul piano materiale sia su quello spirituale.
Dopo la tragica morte di Saul e l’opposizione di alcuni membri delle tribù del Nord (Israele), finalmente Davide viene riconosciuto re anche da queste ultime, motivo per cui gli anziani di Israele si recano a Ebron per consacrarlo e fare alleanza con lui. Le parole che essi rivolgono al giovane re sono estremamente significative: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”» (vv. 1b-2). Il re è chiamato a svolgere tale ruolo non a titolo personale, ma nel nome di Dio, il vero e unico pastore di Israele (cfr. 2 Sam 7,8). Per tale motivo il re e il popolo sono chiamati a celebrare un patto di alleanza «davanti al Signore», a testimonianza del fatto che ogni sovranità sul popolo proviene da Dio e non può certo ispirarsi ad altri modelli monarchici diffusi nel mondo antico, che vedevano nella persona del re non un semplice “consacrato”, ma un vero e proprio dio. Per tale motivo il re di Israele dovrà costantemente e docilmente rimanere in ascolto della parola di Dio, trasmessagli anche mediante le figure profetiche che di volta in volta il Signore porrà al suo fianco.

Nell’inno che S. Paolo offre nella seconda lettura tratta dalla sua epistola ai Colossesi, non si commemora solo l’evento centrale della Pasqua storica, quanto piuttosto la sua perenne attualità, grazie alla dimensione liturgico-sacramentale (battesimo e eucaristia), in virtù della quale i credenti sperimentano la grazia liberante di Dio in Cristo Gesù.
Il primato di Cristo nel quale tanto si riconosce la teologia francescana specie con Duns Scoto ci mostra Gesù che non è semplicemente “immagine” di Dio, nel senso che in lui Dio si manifesta pienamente al mondo e all’umanità in qualità di primogenito di tutta la creazione di cui anticipa il destino di gloria e di piena comunione con il Padre. Proprio per esprimere tale comunione e destino l’inno ricorre alle espressioni: «in lui… per mezzo di lui e in vista di lui».

La pericope evangelica odierna, infine, descrive gli ultimi interminabili istanti della vita di Gesù.
Mentre Marco e Matteo si limitano alla generica allusione agli insulti dei criminali crocifissi accanto a Gesù, Luca introduce un elemento nuovo, distinguendo – per utilizzare la terminologia cristiana – il cattivo dal buon ladrone e riferendo il contenuto delle loro affermazioni.
 Il lettore del Terzo Vangelo viene così a sapere che a pronunciare parole blasfeme è solo uno dei malfattori crocifissi con Gesù. La provocazione del cattivo ladrone (Luca usa significativamente il verbo blasphēmeō) richiama quella dei capipopolo e dei soldati, ma con un sarcasmo più accentuato, il malfattore utilizza la negazione ironica: «non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». La misura della crudeltà, della cattiveria e del sarcasmo è decisamente colma: persino un comune delinquente si scaglia contro il Figlio di Dio inerme sulla croce. Eppure, è proprio sullo sfondo caratterizzato da queste tinte fosche che Luca colloca la testimonianza luminosa del buon ladrone.
L’intervento del buon ladrone è caratterizzato da alcuni contenuti fondamentali: anzitutto egli invita il compagno, con un linguaggio squisitamente religioso, ad avere timore di Dio: l’imminenza della morte dovrebbe indurre il malfattore a pentirsi, prima di incontrare il giudizio di Dio.
In secondo luogo, il buon ladrone riconosce la giustizia della condanna subita a motivo della loro colpa e, di conseguenza, la legittimità̀ della pena; in terzo luogo egli mostra una chiara consapevolezza dell’innocenza di Gesù.
Fatto unico e sorprendente in tutto il vangelo, il criminale si rivolge al Figlio di Dio chiamandolo per nome – «Gesù» –, affidandosi alla sua misericordia nel momento supremo della morte.
L’idea della signoria di Gesù, del suo potere regale su tutte le creature, riprende e radicalizza la tradizione ebraica che attribuisce solo a Dio il vero potere sovrano e non a una istanza terrena, un re o un imperatore. È Dio che dà ordine al mondo, è Dio che amministra la giustizia autentica, è Dio che guida il suo popolo verso la Terra promessa. Per questo si può dire che la tradizione ebraico-cristiana porta con sé una profonda secolarizzazione del potere politico terreno. Mentre nelle altre religioni antiche – dagli Egizi ai Romani – il faraone o l’imperatore potevano vantarsi di essere semidei e pretendere obbedienza assoluta e venerazione, qui i titolari del potere politico vengono considerati semplici uomini e stare di fronte ad essi in adorazione sarebbe idolatria.
Con l’incarnazione di Cristo, come affermava il Rosmini, la signoria di Dio si incarna nell’umanità e ogni uomo attraverso l’incarnazione partecipa della sua regalità. Per questo ogni essere umano, anche il più piccolo, ha un valore infinito.
In Cristo la regalità di Dio si manifesta nella figura del servo sofferente. Questa figura capovolge l’immagine dominante del liberatore messianico tradizionalmente concepito come condottiero vittorioso e afferma il valore della sofferenza come forma di «agire storico», dotato non solo di valore morale, ma anche di capacità di trasformazione della realtà e di cambiamento della storia. La figura del servo come figura della regalità di Dio si contrappone alla figura del padrone quale figura della regalità umana. Nel momento in cui Gesù stabilisce un nesso tra instaurazione del regno di Dio e assunzione della condizione di servo, il suo annuncio opera una radicale messa al bando dei rapporti di signoria esistenti tra gli uomini e indica, normativamente, una precisa modalità, giuridicamente vincolata, di esercizio del potere dell’uomo sull’uomo: quella appunto del servo,.
La morte in croce rappresenta l’apice drammatico della regalità di Cristo con il nesso tra la regalità di Dio e la libertà. La regalità di Dio vince il potere della morte attraverso la morte del Figlio. Dio non salva l’uomo conquistando il mondo con le sue schiere angeliche, ma rispettando la libertà umana, anche quando questa libertà arriva alla violenza e alla morte di Dio. Il Dio Re non impone la salvezza e la beatitudine agli uomini con la forza, perché sa che il vertice più alto della felicità è dato dall’essere protagonisti della sua costruzione. Nella relazione d’amore non si godrebbe della presenza dell’altro se l’altro fosse costretto con la forza a stare con noi. Si gode del fatto che l’altro – liberamente – voglia stare con me.  
I cristiani non sono trionfalisti ma celebrano il trionfo di Cristo sul peccato e la morte. Solo vivendo profondamente il Mistero pasquale che celebriamo, potremo trionfare insieme al resto dell’umanità e alla creazione tutta con Cristo per l’eternità.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *