Pastori con l’odore degli agnelli immolati

Nel giorno in cui sale a venticinque il numero dei sanitari da COVID-19 vorrei rendere omaggio a queste persone cadute nell’adempimento del dovere come i nostri soldati di un tempo.

Sono persone con le loro storie, i loro affetti e la loro passione che era la cura dei malati sui campi di battaglia della malattia.
La preghiera e il riconoscimento a medici e ad infermieri che si stanno spendendo in condizioni al limite della sostenibilità umana è doveroso da parte della società civile.
Vorrei tuttavia ricordare altri medici egualmente combattuti e vinti da questo morbo fagocita di vite umane.
Sono i sessantasette “medici dell’anima” finora censiti, i sacerdoti che sono entrati nella pasqua definitiva.
Il più giovane, don Sandro Brignone, 45 anni, era del Sud, di Salerno ed era parroco a Caggiano.
Il più anziano con i suoi 104 anni (!) era il cremonese don Mario Cavalleri.
La sua longevità interrotta solo dalla pandemia farebbe sorridere i benpensanti, ma “il vecchietto” per trent’anni ha fatto il prete di trincea animando “La Casetta”, una realtà di accoglienza per alcolizzati, tossicodipendenti e profughi.
La diocesi più colpita è Bergamo. Di questa città erano quattro delle suore che morirono in Congo Kinshasa (due erano bresciane) per aver assistito nel 1995 i malati dell’Ebola. La carità e la speranza furono più forti della malattia e ora si prepara la canonizzazione per queste sei religiose infermiere dell’Istituto delle “Suore delle Poverelle”.
Elencare tutti i sacerdoti morti che appaiono nei siti istituzionali sembra una preghiera litanica poiché i loro nomi sono scritti in Cielo.
Hanno celebrato i funerali di tanti, ma in questi giorni di restrizioni sono privati del proprio, accomunati alla irrituale sorte dei loro fedeli.  
A chi si fa prete Cristo ripete ogni giorno: piangi con chi piange, sorridi con chi sorridi, ama con chi ama, soffri con chi soffre, sogna con chi sogna, lotta con chi lotta. Muori con chi muore.
Quando iniziai il mio percorso vocazionale rimasi colpito da un anziano prete nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli. Camminava a stento, poi perse anche la vista.
Mi chiedevo chi avrebbe continuato a spezzare il pane della Parola e dell’Eucarestia ai poveri, a stendere le braccia per benedire e per assolvere e così mi sentii interpellato in prima persona.
Ci sono reverendi “sempre in mezzo alla gente”, scrive l’Avvenire, che continuano a visitare malati e anziani, a benedire le salme in questi giorni drammatici in cui non è possibile neanche celebrare i funerali. Sono alle mense dei poveri o in aiuto ai senzatetto anche se ora le precauzioni, a partire da guanti e mascherine, sono altissime anche tra i religiosi. C’è persino chi, pur sofferente in terapia intensiva, se non a un passo dalla morte, li ha sentiti sostenere i medici leggendo loro la Bibbia.
Lo scorso 15 marzo, durante l’Angelus, Papa Francesco ha ringraziato tutti i sacerdoti che con la loro creatività pensano mille modi di essere vicino al popolo, perché il popolo non si senta abbandonato.
Oltre ai lutti è proprio questa distanza coatta, l’immedesimazione alla sofferenza della gente, il celebrare la Messa a porte chiuse che fa soffrire i sacerdoti in questi giorni. 
Fare il prete significa esporsi a tanti rischi anche per la propria salute ed incolumità fisica e i fatti lo dimostrano: Preti uccisi dai dittatori o dalle mafie, da incidenti o da contagi…
La morte non si arrende” diceva spesso San Daniele Comboni dopo aver seppellito i suoi giovani confratelli in Africa e stroncato lui stesso dalle febbri nere a cinquant’anni di età.
Un capitolo a parte infatti è per missionari, suore, diaconi, personale delle Curie diocesane, responsabili di uffici e collaboratori; una contabilità di vittime tutta da ricostruire.
A Lecco padre Remo Rota, missionario sacramentino, morto a 77 anni per 38 anni in Congo, di sé amava dire, con semplicità: “Ho fatto di tutto, spero di aver fatto bene anche il prete, con i miei difetti”.
Il prete ha dubbi e certezze, speranze e perplessità, illusioni e delusioni, sentimenti dolci e lacrime amare. All’altare o alla scrivania, per strada o in una sala di catechismo, durante una riunione o mentre confessa, il prete è un uomo.
Un uomo di Dio, ma sempre un uomo.
Un uomo che vibra, palpita, intuisce, sogna, progetta, soffre, ama.
Un uomo che ride e un uomo che piange, come in questi giorni…
Molti pretendono che sia “un angelo”, senza ritardi, senza incoerenze, senza fragilità.
Un “angelo profumato” su una nuvoletta bianca e non un prete che puzza di umanità con le mani sporche di fragilità.
Gesù Cristo non è nato in una profumeria, ma in una stalla; ha frequentato ogni ambiente, ogni persona, anche la peccatrice e chissà cosa avranno pensato di lui.
Per un prete vale quello che diceva di sé un pedagogista: “Io non insegno quello che voglio, non insegno neppure quello che so, io insegno quello che sono”.
Quantunque non avessi paura della morte mi può assalire il dispiacere di far soffrire persone che ti vogliono bene o sperimentare l’angoscia di chi ha la sensazione di non aver ancora completato il suo lavoro. Il tempo, il cuore e le energie di un sacerdote, però, appartengono a Cristo, Sommo sacerdote che completerà sempre l’opera di chi si affida a Lui.
Vorrei dire allora “grazie” a questi confratelli sacerdoti che sono morti ma vivono in eterno perché una volta ordinati si è sacerdoti per sempre, “a modo di Melchisedek” come dice la Lettera agli Ebrei.
Spero e prego affinché tanti giovani, grazie a quest’esempio e da questa crisi planetaria, decidano finalmente di seguire Cristo nella via della consacrazione sacerdotale.
“La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi”. (cf. Lc 10, 1-9).  
Affida al Signore la tua vita ed Egli compirà la Sua opera.

Fra AMAB

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