Dio ai tempi del coronavirus

 Il coronavirus ci insegna che esistono contingenze e situazioni ineluttabili che sfuggono dal controllo e dall’autodeterminazione.
Educazione, formazione, responsabilità, scelte, condizionamenti, sembravano che con tutto il resto della realtà e il suo svolgimento storico dipendessero dagli uomini.
La grandezza dell’uomo, invece, consiste anche nella sua capacità di gestire l’incerto destino, l’imprevisto, con quell’atteggiamento che la mistica tedesca chiama Gelassenheit, cioè “abbandono fiducioso”.

Ho riflettuto su questo leggendo i “Concetti morali fondamentali” di Robert Spaemann, uno dei più originali e raffinati filosofi cristiani contemporanei, scomparso appena alla fine del 2018.                                         

Spaemann nell’ottava meditazione concludeva questo saggio parlando dell’abbandono fiducioso nei confronti di quello “che non possiamo cambiare”.

Il fanatico infatti è colui che crede che solo le cose da lui poste e realizzate hanno senso;

il cinico, al contrario, è colui che rinuncia al senso e si allea con il diritto del più forte.

Occorre riconciliarsi con la realtà, fare amicizia con essa nella coscienza che le cose che non possiamo modificare accadono comunque, che noi le accettiamo o meno.

Come Viktor Frankl affermava, “non conta solo quello che noi attendiamo dalla vita, ma quello che la vita attende da noi”.

Spaemann vuol dire che bisogna abbandonare l’idea moderna del soddisfare a tutti i costi le passioni e i desideri, che bisogna accettare che ci sia qualcosa di più grande di questo io intelligente, insaziabile, martoriato e psicanalizzato.

Qualcosa come un figlio, una famiglia, una comunità, una tradizione, persino un dovere.

Questo significa una capacità d’impegno costante che assicura la positiva rassegnazione di “averle tentate tutte” anche di fronte l’insuccesso o l’inevitabile.

Ma quando l’umanità sarà finita, la storia universale e le storie particolari estinte, quando non ci sarà nessun uomo che possa ricordare il passato, cosa succederà? Non saremo mai esistiti? Ovviamente no dice Spaemann. Non possiamo pensare, anche noialtri medi esseri umani, noi che stamattina abbiamo fatto il caffè o che stiamo leggendo il giornale in tram, di non essere mai esistiti.

Ecco, Spaemann dimostra che non si può pensare il passato, il futuro, e un presente che scorre, senza mettere in gioco l’idea di Dio, se non altro come Grande Rammemoratore.
Il pensiero ha bisogno dell’idea di Dio per poter parlare della realtà. Quando parliamo, lo facciamo dal punto di vista di un ricordo che è in noi, e che ha la sua sostanza nell’idea di Dio. Dio come collettore del passato (e anche del futuro, una volta trascorso) di tutta l’umanità.
Se così non fosse potremmo benissimo svegliarci domattina e sostenere di chiamarci Paperino, non riconoscere la fidanzata e ficcarci le chiavi di casa su per il naso.
Il che comunemente non succede. L’ipotesi di Spaemann è detta “dell’infinito futuro”.
E c’è anche un aspetto linguistico e grammaticale. Visto che la nostra esperienza è immersa nel linguaggio ed è fatta di linguaggio usiamo continuamente una grammatica costruita teologicamente. La grammatica ha a che fare con il collegamento tra le parole (coniugare i verbi, collegare nomi e aggettivi, eccetera), e il collegamento è un esercizio di memoria che ha come fondamento l’idea di Dio. Per dirla con Nietzsche: “non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica”. Insomma, per Spaemann “ogni verità è eterna”, e l’eternità, anche solo come presupposizione del pensiero, ha un’impronta divina. L’idea di Dio torna costantemente nella realtà; parliamo e pensiamo come se Dio esistesse.

Ma la domanda fatale, quella che interviene sempre a chiunque si sia posto il problema di Dio è: come fare a conciliare l’idea di un Dio buono con l’esistenza del male del mondo?

Una malattia improvvisa, fino alla morte dell’innocente, come si giustifica?

Spaemann dice: “Non c’è altra risposta di quella che ha dato Giobbe. Protesta con Dio, e gli dice che i suoi guai sono ingiusti. Poi vengono gli amici di Giobbe e gli dicono “Dio non è ingiusto, sicuramente hai fatto qualcosa di male”. Poi arriva Dio e disprezza gli amici di Giobbe, dice “non avete capito niente. Il mio servitore Giobbe è molto meglio di voi”. Il fatto che Giobbe protesta vuol dire che tiene ferma l’idea che Dio è giusto”. Il male è un mistero. Ma c’è anche un’altra risposta. E’ la croce del Cristo, che non ha dato una spiegazione al problema del male, ma l’ha sopportato, nella sua carne.

Basterebbe vedere un’opera esposta nella galleria di Stoccarda, un Gesù Cristo dolente, ma che si trova in una campagna e non è riconoscibile. Non è il Cristo, è un uomo sofferente che rappresenta il Cristo. E’ l’immagine di una immagine. Una grande opera, perché evoca una memoria che è dentro noi tutti ma non è qualcosa di puramente soggettivo

Una volta, in un’intervista allo Spiegel gli chiesero: “dov’era Dio ad Auschwitz?”.

Spaemann rispose: “Sulla Croce!

 

Fra AMAB

 

 

 

 

 

 

 

 

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