Urge un’educazione politica al lavoro

La ricostruzione del dopoguerra aveva generato nuove speranze per il futuro in tante famiglie dilaniate dai conflitti bellici che avevano lasciato lutti e macerie.
Il miracolo economico degli anni Cinquanta tuttavia era accompagnato da tensioni politiche e sociali che venti anni dopo porteranno alla sanguinosa stagione eversiva nel nostro Paese.
Pio XII nel 1955 istituì la memoria liturgica di San Giuseppe lavoratore nel contesto della festa dei lavoratori, universalmente celebrata il 1° maggio.

Si trattava di riconciliare e ricompattare le forze vive e produttive della Nazione intorno alla figura del Custode della Sacra Famiglia, modello di laboriosità e generosità col frutto del proprio sudore.

La stessa Costituzione italiana esordisce riconoscendo la nostra repubblica democratica fondata sul lavoro.

Nella commissione di studio del testo fu profetica l’intuizione di Aldo Moro che formulò per il primo articolo della Costituzione il termine “lavoro” piuttosto che “lavoratori”.
Oggi infatti perde terreno il modello economico e sociale basato sulla grande fabbrica, su una classe operaia omogenea, sui prodotti di massa, aumentano i nuovi lavori nel terziario, le occupazioni volte alla cura e al sostegno delle persone, le prestazioni part time, interinali e le forme atipiche che non sono inquadrabili né nel lavoro dipendente né in quello autonomo.
Parimenti, il lavoro artigianale sembra acquistare nuovo vigore e nuovo slancio, a motivo del decentramento produttivo, che assegna alle aziende minori molteplici compiti sinora svolti all’interno delle grandi unità produttive.
Non si può ignorare, poi, l’ingresso consistente delle donne nel mercato occupazionale.
La mondializzazione e la globalizzazione dell’economia e della finanza appaiono fenomeni ambivalenti. Mentre aprono nuove aree di operosità ed ampliano la divisione e la diversificazione del lavoro, congiuntamente all’affermarsi di ideologie radicali di tipo capitalistico, possono ripetere ed inverare l’errore teorico e pratico dell’economicismo e del materialismo, che nel tempo ha imbevuto il mondo del lavoro e che la Chiesa ha apertamente e ripetutamente condannato.
Il lavoro, separato dal capitale e ad esso contrapposto, se viene considerato esclusivamente secondo la sua dimensione economica, è declassato e misconosciuto nel suo valore intrinseco, superiore ad ogni elemento materiale. Nel contempo, il materiale acquista preminenza e superiorità rispetto allo spirituale e personale. L’uomo del lavoro, vero soggetto efficiente dei processi di produzione e di scambio, è ridotto a variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari mondiali, i quali sono accettati come entità sovrane e insindacabili, irresistibili e irreformabili. Il destino dell’uomo del lavoro non raramente è messo a repentaglio dalla crescita dell’attività finanziaria delle imprese, che le espone alla tentazione di rovesciare l’ordine delle priorità tra capitale e lavoro. Infatti, la finanziarizzazione dell’economia distoglie gli operatori economici, e in primo luogo le imprese, dall’investimento produttivo dei capitali, per indirizzarli là ove si ottiene il massimo rendimento nel tempo più breve possibile.
Secondo la Dottrina sociale della Chiesa, le grandi trasformazioni del mondo del lavoro possono essere orientate verso l’autentico progresso dell’uomo e della società, quando siano guidate ed animate da una cultura del lavoro di tipo personalista, solidarista, aperta al Trascendente.
La Chiesa afferma che la negazione o la vanificazione del diritto al lavoro è da considerare una “calamità sociale”, soprattutto con riferimento ai giovani. Il lavoro è un bene di tutti, che dev’essere disponibile per tutti coloro che ne sono idonei. Il lavoro consente alle persone di divenire più libere e responsabili. La ricerca della piena occupazione resta un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico socialmente orientato, giusto e democratico. Prima del diritto all’assistenza sociale per disoccupazione, l’uomo è titolare di un diritto al lavoro.
A dieci anni dall’enciclica Caritas in veritate, possiamo riaffermare con essa che il lavoro per tutti non va realizzato in qualsiasi maniera. Il lavoro va globalizzato, in particolare, secondo quell’eccedenza che esso contiene, in quanto espressione dell’essere umano. Il lavoro non è solo forza, o attività fisica o intellettuale e basta.

E’ insita in esso una soggettività, una spiritualità, una tensione al bene, una passione per quello che si fa, una dimensione di gratuità e di dono, di servizio e di collaborazione con altri, connotazioni queste che eccedono il prodotto del lavoro, al quale spesso è rivolta tutta l’attenzione. Ebbene, la globalizzazione del lavoro, bene per tutti, deve avvenire tenendo conto di questa eccedenza, favorendone l’espressione, creando condizioni e relazioni di lavoro ove essa si possa esprimere liberamente. È un impegno che coinvolge tutti: Stati, imprenditori, sindacalisti, amministratori, Chiesa. È un imperativo per rendere più umano il lavoro e nello stesso tempo per renderlo più produttivo. Non si universalizza e non si organizza umanamente il lavoro senza tener conto dell’eccedenza che è insita in esso, senza valorizzarla nella professionalità dei lavoratori.

E’ necessaria allora un’educazione al lavoro che si condensa nel programma triadico: umanizzare il lavoro; umanizzare se stessi nel lavoro e umanizzare gli altri attraverso il lavoro.

 

Fra AMAB

 

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