Debora e la vittoria di civiltà cristiana

Mentre le ombre della giornata si distendono rivolgo un ricordo e una preghiera a Debora Alessi spentasi all’età di 31 anni come il numero dei ritocchi delle campane ha significato durante l’ingresso della sua bara bianca nell’aula liturgica della nostra parrocchia di San Rocco.Debora, donna gloriosa del Libro dei Giudici, ha dato il suo nome a una giovane figlia di Sicilia che ha lottato contro un male incurabile. Il suo nome che dall’ebraico significa “ape”, mi ha ricordato il cero pasquale di luce e calore che si consuma illuminando e riscaldando, proprio come l’esistenza breve e intensa di chi ha conosciuto e amato.
L’ape è anche industriosa e generosa nel lavoro come la missione di chi si occupa degli altri.
Dalle testimonianze degli infermieri ho saputo che l’angoscia dell’agonizzante in terapia intensiva nei giorni culminanti della pandemia era la solitudine del pre-morte e del dopo morte.
Per noi uomini, la morte da isolati e la sepoltura senza funerale e senza Messa, rappresentano il clou nella vittoria della pandemia sulla nostra vita.
Noi siamo fatti per accompagnare con l’addio, in chiesa, con una Messa, coloro che ci lasciano e se ne vanno. Il funerale è un ringraziamento, non vogliamo staccarci da chi ci lascia, vogliamo che capisca quanto gli siamo legati, ci raduniamo apposta per lui, gli diciamo il meglio che sappiamo dire, lo affidiamo a chi è più forte della morte.
L’integro svolgimento del funerale permette, nella nostra cultura, di vivere il cordoglio e iniziare una corretta elaborazione del lutto.
Questo tempo della morte senza funerali è finito.
La vittoria della pandemia sulla civiltà finisce oggi.
Se da un lato il Presidente dei vescovi italiani raccomanda di non prendere fughe in avanti è necessario che non si prendano fughe all’indietro una volta che l’autorità competente permette un rito religioso e civile, umano e umanizzante.
L’Ostia immacolata si è elevata davanti alla bara bianca di una giovane che si è alimentata di Eucarestia durante la sua vita e che una volta restituita alla terra è un seme d’immortalità.
Da sempre è l’istituzione religiosa che si occupa di accompagnare i defunti. Gesù “morì e fu sepolto” e Giovanni il Battista, una volta decapitato, fu posto in un sepolcro dai suoi discepoli (cf. Mc 6,29; Mt 14,12).
Pina, la mamma dilaniata dal dolore ma composta e dignitosa mi ha detto che Debora ha atteso il primo giorno utile prima di passare a miglior vita per ricevere un funerale cristiano con la Messa così come era suo desiderio nella lucidità del cammino senza ritorno intrapreso.
La carità sacerdotale, il rispetto delle norme di chi è titolare a legiferare si sono armonizzate con la legge della coscienza di un parroco di periferia.
Accompagnare il caro defunto è un rito necessario per chi se n’è andato e per chi resta.
Ricordo che secondo le leggende africane di diverse tribù, gli elefanti, quando sentono avvicinarsi la morte, si separano dal gruppo per non essere di peso e per non rallentare la mandria. Questi animali si separano e giungono nell’area specifica del loro “cimitero” per morire in pace.
Gli esseri umani invece non lasciano i loro morti abbandonati alle intemperie o, preda degli animali, ma li collocano in luoghi appartati, ne ricompongono il cadavere, li onorano.
La mia giovane parrocchiana Debora aveva ricevuto due anni fa la Cresima e si preparava al matrimonio.
Giuseppe, il suo fidanzato l’ha accompagnata all’altare delle nozze eterne testimoniando come l’amore sia forte come la morte, quell’amore che invece diluisce in alcuni e diventa latitante a dispetto della formula di fedeltà, nella salute e nella malattia, del consenso matrimoniale cristiano.
Le Grazie, il poemetto incompiuto del Foscolo, così come una giovane vita spezzata appare incompiuta, considera la civiltà non solo nei suoi valori eroici e civili, ma anche in quei valori più intimi e delicati che vivono nelle pieghe più sottili e riposte del sentimento che ci rendono più umani e comprensivi di fronte alla vita e alle sue sofferenze.
Dio, incarnandosi, ha voluto conoscere il dolore e la morte per rendersi solidale all’uomo.
Cristo conclude la sua vita umiliato su una croce. E’ così tuttavia che sconfigge la morte.
Oggi non è facile trovare chi ha voglia di lottare per la difesa di ciò che è e rappresenta.
“Il coraggio quando uno non ce l’ha – dice don Abbondio – non se lo può dare”.
Il don Abbondio non resta una semplice memoria manzoniana.
Anzi, nell’attuale contesto sociale, dove è cresciuto, in maniera esasperata, lo smarrimento morale e mentale, se ne riscontrano fotocopie perfette, moderni “vasi di terracotta costretti a viaggiare tra tanti vasi di ferro”.
Nella testimonianza di un’amica si è scritto di Debora: “Dentro tormentata, triste, voleva vedere le cose belle ma aveva tanti ‘mostri interiori’ che la divoravano. Aveva però una forza di volontà indomabile e la capacità di fare il possibile per la vita che avrebbe voluto”.
Debora è stata una ragazza coraggiosa, dai mille perché, quelli che sposano la fede alla ragione, quelli del dialogo e della sincera apertura alla verità.
Così, ieri come oggi, il coraggio della verità, della coerenza è solo un grido di parole, che cede facilmente al vento della prepotenza e di qualsiasi potere.
Tutti, a parole, sono bravi nel gridare il rispetto di se stessi, del proprio ruolo, e persino delle idee, mentre, in concreto, al cospetto di larvate minacce o aperte speranze, si piegano, soffocando ogni tonalità di sé.
Non così Debora.
Se i don Abbondio sono e saranno sempre presenti nella storia dell’umanità e rappresentano le pagine bianche dove i furbi imprimono il sigillo del loro potere, Debora ha incontrato nell’eterno presente il Fra Cristofaro di manzoniana memoria di ieri, di oggi e di sempre.
Con Debora muore un pezzo della nostra parrocchia ma risorge un pezzo di pietà dimenticata alle volte nei sordidi vicoli o nelle piazze lastricate della città degli uomini.

Fra AMAB

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *