La Giornata Mondiale del Rifugiato.

 Il 20 giugno 2020 vuole sensibilizzare la comunità internazionale sul tema dell’immigrazione e sulle tante storie di vita di quanti abbandonano la propria terra perché vittime di guerre ingiuste o di discriminazione religiosa, politica o di genere.

Il termine «rifugiato» porta con sé la fuga nel presente e un passato che in qualche modo non si potrà cancellare, ma rimarrà nel tempo e nella memoria.

Per i cristiani, la “Fuga in Egitto” della Sacra Famiglia è l’esempio eloquente dell’ingiusta persecuzione ai danni di innocenti.

Grande quindi dev’essere la vicinanza verso quelle persone che come singole o come raggruppamento familiare non trovano nel luogo d’origine le condizioni sufficienti per la sopravvivenza e l’incolumità.

I dati ufficiali del rapporto dell’UNHCR (Alto Commissariato dei Rifugiati dell’ONU) stimano che al momento attuale una persona su novantasette nel mondo è in fuga da conflitti, persecuzioni o violenze, pari a più dell’1 per cento della popolazione mondiale.

Alla fine del 2019 settantanove milioni e mezzo di persone erano vittime di esodi forzati – il 40% dei quali minori – con un incremento di quasi nove milioni di persone rispetto al dato del 2018.

Negli anni Novanta, una media di 1,5 milioni di rifugiati riusciva a fare ritorno a casa ogni anno, mentre negli ultimi dieci anni la media è crollata a circa 385.000.

L’incremento annuale rappresenta il risultato di due fattori principali. Il primo riguarda le nuove crisi verificatesi nel 2019, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Sahel, in Yemen e in Siria, quest’ultima responsabile dell’esodo di 13,2 milioni di persone, più di un sesto del totale mondiale. Il secondo è relativo a una migliore mappatura della situazione dei venezuelani che si trovano fuori dal proprio Paese, molti non legalmente registrati come rifugiati o richiedenti asilo. Due terzi delle persone in fuga all’estero provengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar.

 L’UNHCR rivolge oggi un appello ai Paesi di tutto il mondo affinché si impegnino ulteriormente per dare protezione a milioni di rifugiati e altre persone in fuga. «Siamo testimoni di una realtà nuova che ci dimostra come gli esodi forzati, oggi, non soltanto siano largamente più diffusi, ma, inoltre, non costituiscano più un fenomeno temporaneo e a breve termine», ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi.

 Ha poi aggiunto: «È necessario adottare sia un atteggiamento profondamente nuovo e aperto nei confronti di tutti coloro che fuggono, sia un impulso molto più determinato volto a risolvere conflitti che proseguono per anni e che sono alla radice di immense sofferenze».

Ali Shaikhi, 33 anni, mostra un’immagine di Kobane, da cui è fuggito nel 2012. La sua casa non esiste più: è stata distrutta nel 2014 durante l’occupazione dell’Isis. A Erbil, nel Kurdistan lavora come meccanico per mantenere la moglie e i suoi cinque figli. Anche Barkhodan Demir, viveva a Kobane. A Erbil fa il sarto e sa che non tornerà mai più in Siria.

Secondo l’UNCHR mentre alcuni rifugiati dipendono totalmente dagli aiuti internazionali attraverso le ONG, altri iniziano una nuova vita, cambiando tutto dall’occupazione, allo status sociale, per adattarsi alle loro nuove realtà. Vite nei campi profughi Sono sempre di più i rifugiati che vivono in contesti urbani fuori dai campi profughi. Alcune crisi sono durate così a lungo che i campi sono ormai diventati aree urbane edificate.

Fathia ha 32 anni e lava i panni circondata dai suoi figli davanti alla stanza in affitto a Sanaa, Yemen.

«Io, mio ​​marito e i nostri cinque figli, ci siamo stati trasferiti a Sanaa dopo che nel nostro villaggio nello Yemen occidentale tutto è andato distrutto a causa della guerra. Lavoravamo la terra, adesso mio marito raccoglie oggetti di plastica usati per poter pagare l’affitto (quasi 16 dollari USA)».

Le vicissitudini dei rifugiati sono «Odissea di stracci, esodo senza Mosè, ma io so c’è stato dolore» canta il violinista e cantautore Michele Gazich ricordando i profughi della Dalmazia in «Venezia 1948».
Ancora oggi vediamo i rifugiati ammassati sui gommoni, coperti di stracci, gente che non appartiene a nessun popolo eletto, come poteva essere il popolo d’Israele durante la fuga dall’Egitto sotto la guida di Mosè.

Assomigliano ai tapeinoi (gli umili, i tapini) che vengono innalzati nel Magnificat di Maria (Lc 1,52), ma che vivono il dramma di sperimentare nella loro carne il dolore della persecuzione, dell’esilio, nella sconfitta.

La loro vita è riconsegnata ad altri nella speranza di un’accoglienza.

Se non c’è un Omero nelle storie dei rifugiati, c’è un Ulisse accolto male nell’isola globale che si sostituisce al «villaggio globale».

L’Italia del Mare nostrum fece dei porti non solo un luogo di sbarco, ma anche un luogo di scambio culturale e commerciale, con Fenici, Greci e Alessandrini.

«Siamo tutti sulla stessa barca» affermava con forza Papa Francesco in una piazza San Pietro deserta il 27 marzo 2020 indicando la fraternità e la solidarietà tra uomini e donne come via di uscita dalla crisi provocata dalla pandemia. Anche in questa giornata vogliamo ricordare a tutti la necessità di essere uniti, oggi più che mai, perché nessuno è al sicuro se non lo siamo tutti.

Fra AMAB

 

 

 

 

 

 

 

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