Il Vaticano spiato?

 In base alla ricostruzione di Recorded Future, una società privata americana del Massachusetts che traccia gli attacchi informatici sostenuti dagli Stati, il Vaticano sarebbe stato oggetto dallo scorso maggio di spionaggio da parte di hacker cinesi riconducibili al gruppo RedDelta.
Ne da notizia il 29 Luglio 2020 il New York Times mentre il Global Times – che è la versione in inglese del Quotidiano del Popolo Cinese – non ne fa nemmeno menzione.

In ogni caso, Pechino ha negato un suo coinvolgimento all’operazione di RedDelta. Prima di tutto “dovrebbero essere fornite prove sufficienti quando si indagano e si determinano la natura degli incidenti sulla cybersecurity”, ha commentato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin che ha anche detto come “non dovrebbero essere fatte ipotesi arbitrarie”.
Il “cavallo di Troia” informatico sarebbe la Holy See Study Mission di Hong Kong, tra le missioni più strategiche del Vaticano nel mondo essendo il collegamento con le diocesi della Cina.

Gli hacker avrebbero penetrato il sistema con la riproduzione di una lettera elettronica di cordoglio della Segreteria di Stato della Santa Sede per la scomparsa del vescovo cinese Joseph Ma Zhongmu.

Le presunte intrusioni da parte degli hacker servirebbero per comprendere la posizione della diplomazia pontificia al rinnovo di un Accordo che dopo anni di tensioni ha portato la Chiesa sotterranea a non essere più tale.  

La strategia del dialogo con Pechino, voluta da Papa Francesco, ha portato infatti all’accordo provvisorio del 22 settembre 2018 sulla nomina dei vescovi dopo decenni di trattative sottotraccia.
Ora l’eventuale prolungamento dell’Accordo fra Cina e Vaticano è attenzionato da diverse parti. Non è un mistero per nessuno che l’Amministrazione Trump abbia guardato non di buon occhio le aperture della Santa Sede alla Cina, viste come una sorta di nobile accreditamento che potrebbe portare, se sfruttato nel modo migliore, importanti benefici politici ed economici al colosso-concorrente asiatico.

Secondo alcuni osservatori gli attacchi a Francesco mossi dal mondo conservatore americano partono anche da qui, da una geopolitica vaticana troppo spostata a Oriente.

Papa Francesco, non sempre capito anche dai suoi collaboratori per le sue intuizioni profetiche, ha riproposto con forza la Santa Sede al centro delle relazioni internazionali.

La visione geopolitica complessiva di Bergoglio è quella di un equilibrio multipolare, e difficilmente potrebbe non essere così, essendo lui latinoamericano. È la stessa visione della Russia, della Cina, dell’India, del Brasile e in generale dei grandi paesi emergenti. Non è la visione degli Stati Uniti che si vorrebbero soli al comando, o almeno soli a dare le carte del gioco planetario. In ogni caso, la vicinanza alla Russia non ha fatto deflettere Francesco dalle sue linee di principio. Su Iraq e Siria, ad esempio, Bergoglio ha sempre ricercato soluzioni politiche e non militari, evitando di benedire sia le operazioni militari americane che quelle russe.

Dopo la visita a dir poco trionfale del 2015, con Obama presidente, gli USA sono per Papa Francesco una dolorosa spina geopolitica. S’era sperato tra gli amici di Bergoglio in un Trump isolazionista che limitasse l’interventismo statunitense nel mondo e conducesse una politica pragmatica, laica, senza attrazione per la destra religiosa, new born o pro life che fosse, protestante o cattolica che fosse.

La realtà è stata diversa: cospicuo incremento delle spese militari, sfoggio di muscoli e minacce, interventismo apparentemente inconsulto, sciovinismo tale da oscurare la tradizionale idea messianica di nazione provvidenziale per il mondo. L’America first di Trump è inaccettabile per Francesco e più in generale per la Chiesa cattolica plasmata dal Concilio Vaticano II. Con due sgradevoli paradossi: un voto cattolico che negli Stati Uniti s’è orientato maggioritariamente sul magnate newyorkese; una Conferenza episcopale cattolica la cui sensibilità prevalente resta quella delle culture wars degli anni di Bush e Obama, anziché quella della Chiesa in uscita nelle periferie urbane e umane secondo la teologia del popolo e della misericordia propugnata da Francesco.

Quanto alla Cina con cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951 l’approccio di Francesco è stato singolare. I papi precedenti, da Paolo VI a Benedetto XVI, avevano cercato di tessere relazioni con la Cina mettendo a tema la situazione dei cattolici locali, distribuiti fra i due poli dei clandestini e dei patriottici. Non che Francesco intenda evadere dalla questione, ma prima di affrontare con Pechino i contenziosi principali – libertà religiosa e nomina dei vescovi – ha disteso l’atmosfera. In prospettiva non confessionale e non proselitistica, nel febbraio 2016 ha lanciato un appello a non aver paura della Cina e ha espresso la chiara speranza che il grande paese sia un alleato nella costruzione della pace, auspicando si possa “camminare insieme”. Intanto la Segreteria di Stato riprendeva pazientemente l’annoso e arduo negoziato con i cinesi, da sempre sovranisti per consolidato sinocentrismo.
I cattolici in Cina rappresentano l’1% scarso della popolazione, non un gran peso in assoluto. Eppure, la loro causa è stata prescelta da correnti politiche neoconservatrici statunitensi o riconducibili ad esse per essere eretta a banco di prova dei diritti umani (intesi con metro occidentale) e della democrazia in Cina. Sicché il destino dei cattolici cinesi ha finito per essere equiparato a quello di minoranze etnico-religiose come tibetani e uiguri. Quanto di peggio per indurre Pechino a trattare con Roma. Francesco non crede al catenaccio tra cristianesimo e valori occidentali. In questo senso non appoggia contestazioni del sistema politico cinese e non intende interferire nelle vicende interne della Cina. Chi connette la sorte dei cattolici cinesi a un condizionamento, indebolimento o rovesciamento del governo di Pechino, li sacrifica in nome di una opzione politica. Francesco non intende lasciarsi strumentalizzare dall’occidentalismo anticinese ma al tempo stesso pone precisi punti fermi alle trattative, che infatti procedono con cautela da entrambe le parti.

La sindrome di Turandot infatti affligge da qualche tempo la leadership cinese, terrorizzata eppure affascinata innanzi al potenziale coesivo e divisivo, persino eversivo della fede. E’questa la posta della commessa, e scommessa, da centinaia di milioni di anime, col taglio e col travaglio di una guerra di nervi, tra Bergoglio e Xi.

Le Chiese cristiane in tutto il mondo hanno preso coscienza del fatto che il XXI secolo è veramente il secolo dell’Asia.

Fra AMAB

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