Uomini di Dio (Des hommes et des dieux)

Il 21 Maggio 1996 sette monaci trappisti vennero uccisi in Algeria dopo essere stati prelevati dal loro monastero di Thibirine da un gruppo armato nella notte tra il 26 e il 27 marzo dello stesso anno.

Erano anni difficili per il paese magrebino caduto in una sanguinosa guerra civile seguita al colpo di Stato del 1992 attuato dai militari.

I monaci erano tutti di nazionalità francese e, da poco missionario in Africa, ricordo con quanta commozione in una riunione di vicaria foranea a Sehoué in Benin noi preti sottoscrivemmo una lettera di condoglianze ai loro confratelli della casa madre.

E’ con soddisfazione che ho appreso della loro beatificazione l’8 dicembre 2018 al santuario di Notre Dame de la Croix di Orano insieme ad altre dodici vittime di quella sanguinosa stagione algerina degli anni Novanta

I sette religiosi trappisti erano:

  • Christian de Chergé, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971.
  • Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947.
  • Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987.
  • Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985.
  • Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1990.
  • Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987.
  • Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989.

Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, e dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono nel monastero di Fès in Marocco.

La loro testimonainza ha contribuito nel 2010 alla sceneggiatura del film “Des hommes et des dieux” diretto da Xavier Beauvois e vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria del 63º Festival di Cannes.

I funerali si svolsero nella Basilica di Notre-Dame d’Afrique, ad Algeri, il 2 giugno 1996 insieme a quelli del cardinale Léon-Etienne Duval e i resti furono poi sepolti nel cimitero del monastero il 4 Giugno.

Il cardinale godeva di grande autorevolezza in Algeria e il lutto per il presule avrebbe dovuto diluire l’attenzione dell’opinione pubblica sul massacro dei monaci.

Nessuno avrebbe mai immaginato che gli islamisti avessero potuto spingersi a tanto contro degli inermi religiosi ed in effetti così fu grazie ad una verità venuta alla ribalta diversi anni dopo.

La presenza dei trappisti era sicuramente scomoda, ma sarebbero bastate delle minacce e intimidazioni pesanti come quella del rapimento per depotenziarli nella loro attività.

La revisione storica è pressoché unanime nel riconoscere solo oggi che quei monaci furono uccisi per errore da un elicottero delle forze governative che sparavano dall’alto in maniera indiscriminata contro qualunque raggruppamento di uomini creduti potenziali guerriglieri.

I corpi dei monaci erano crivellati di colpi e per questo, al momento dei funerali, nelle bare furono messe solo le teste. L’origine della mano assassina poco cambia il significato di una vita offerta per un popolo che li ricorda con riconoscenza e affetto anche se di confessione religiosa diversa.

Quel rapimento al monastero era stato progettato per mostrare la pericolosità dilagante degli islamici, per sollevare l’indignazione internazionale durante la prigionia dei sette bersagli inermi, ma per concludersi con la liberazione, dimostrando così l’affidabilità, l’efficienza delle autorità locali durante il loro colpo di Stato.

E’ un’ulteriore conferma delle due anime dell’esercito algerino dell’epoca, diviso tra la componente patriottica, nazionalista, professionale, e la componente deviata della sicurezza, dei generali affaristi, legati a una gestione tortuosa del potere. Il comunicato 44 della GIA (Gruppo Islamico Armato) che rivendicava l’uccisione dei monaci fu ben presto considerato un falso.

Era commovente la qualità dei legami umani e spirituali che i monaci avevano saputo stabilire con il loro vicinato musulmano. Avevano relazioni con la maggior parte degli abitanti del villaggio di Tibhirine, che poco a poco si erano abituati a riconoscere nei loro vicini trappisti dei fratelli in Dio, anche se loro erano musulmani e i monaci cristiani: relazioni di malati con fratel Luc, medico, il cui dispensario frequentavano, visite al fratello guardiano, Amedeo, o a un altro, per farsi compilare i moduli, lavoro in comune con fratel Christophe, incaricato del giardino, o con fratel Paul, le cui competenze di idraulico erano conosciute da tutti. Alcuni sapevano anche condividere con fratel Christian le loro preoccupazioni spirituali e comunque tutti riconoscevano il valore della preghiera dei monaci e contemporaneamente approfittavano della sala di preghiera che il monastero aveva preparato per loro aprendo una stanza del monastero che dava sulla strada.

Sapendo per molti mesi che il loro martirio era molto probabile, padre Christian scrisse un testamento da leggere nel caso in cui fosse morto. Penso che in questo momento sia importante rivedere ciò che ha scritto perché ci sono molti aspetti profondi che se ne possono trarre e molte cose da poter applicare anche alla nostra situazione. È un promemoria del fatto che siamo tutti, in modi diversi, chiamati al martirio, che si tratti della persecuzione quotidiana della nostra fede o della rinuncia letterale alla nostra vita.

Nonostante la paura e l’agitazione che doveva provare e a cui avrebbe potuto essere tentato di soccombere, il priore Christian de Chergé scrisse con un amore e una bellezza che vanno al di là della paura della morte. Le sue parole sono un promemoria del fatto che dovremmo pregare per il momento della nostra morte, in qualsiasi circostanza possa avvenire. Nonostante la paura che possiamo provare per la situazione mondiale attuale, dovremmo ricordare sempre di avere riconciliazione nei nostri cuori. Ciò può significare una cosa semplice come pregare per la nostra conversione più profonda, per i nostri nemici e per la conversione altrui.

“Se un giorno dovesse succedermi – e potrebbe essere oggi – di diventare una vittima del terrorismo che ora sembra pronto a colpire tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che i membri della mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, ricordassero che la mia vita è stata donata a Dio e a questo Paese. Chiedo loro di accettare che l’Unico Signore della vita non è stato estraneo a questa brutale dipartita. Chiedo loro di pregare per me, perché come potrei essere ritenuto degno di un’offerta simile? Chiedo loro di poter associare questa morte alle molte altre altrettanto violente ma dimenticate nell’indifferenza e nell’anonimato.

La mia vita non vale più delle altre, né meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapere che condivido il male che sembra prevalere nel mondo, anche quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Quando arriverà il momento, vorrei avere uno spazio chiaro che mi possa permettere di implorare il perdono di Dio e di tutti gli altri esseri umani, e allo stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi ucciderà.

Non potrei desiderare una morte simile. Mi sembra importante dirlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi se questa gente che amo dovesse essere accusata indiscriminatamente del mio omicidio. Sarebbe un prezzo troppo alto per quella che forse verrà chiamata “la grazia del martirio” attribuirlo a un algerino, chiunque sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a quello che ritiene sia l’islam. Conosco il disprezzo che può essere provato nei confronti degli algerini in generale. Conosco anche la caricatura dell’islam incoraggiata da un certo tipo di islamismo.

È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con le ideologie fondamentaliste degli estremisti. Per me, l’Algeria e l’islam sono qualcosa di diverso; sono un corpo e un’anima. L’ho detto abbastanza spesso, credo, nella sicura consapevolezza di quello che ho ricevuto in Algeria, nel rispetto dei credenti musulmani – trovare qui tanto spesso quell’elemento del Vangelo che ho imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia prima vera Chiesa.

La mia morte, ovviamente, sembrerà giustificare chi mi ha giudicato frettolosamente ingenuo o idealistico – “Ci dica ora cosa ne pensa!” -, ma queste persone devono capire che la mia più grande curiosità sarà allora soddisfatta. È quello che riuscirò a fare, se Dio vuole – immergere il mio sguardo in quello del Padre; contemplare con lui i suoi figli dell’islam come li vede, tutti splendenti della gloria di Cristo, il frutto della sua Passione, pieni del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione e rimodellare la somiglianza, gioendo nelle differenze.

Per questa vita offerta, totalmente mia e totalmente loro, ringrazio Dio, che sembra aver desiderato tutto questo per il bene di quella gioia in tutto e nonostante tutto. In questo “Grazie” pronunciato per tutto nella mia vita da questo momento in poi, includo sicuramente voi, amici di ieri e di oggi, e voi miei amici di questo luogo, insieme a mia madre e a mio padre, ai miei fratelli e alle mie sorelle e alle loro famiglie – il centuplo garantito come promesso!
E anche te, amico del mio momento finale, che forse non sai cosa stai facendo. Sì, dico questo “Grazie” – e questo adieu – anche a te, per affidarti al Dio il cui volto vedo nel tuo.

Spero che potremo ritrovarci come felici “buoni ladroni” in Paradiso, se così vorrà Dio, Padre di entrambi. Amen”.

(Dal Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé)

Fra AMAB

 

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