Il principe interiore e il principio di unità

L’arrivo ostentato in chiesa di una Ferrari del figlio del boss che fa la Prima Comunione, mi ha fatto subito riflettere…

Ho acceso i motori della mente e sono entrato nella pista dei pensieri.

Dal mondo delle idee parlerò del mondo materiale, anzi del materialismo che, piaccia o no, è il deserto dei simboli, nel quale poi inevitabilmente seguiamo i miraggi offerti dai manipolatori del simbolico.

Una Parigi-Dakar culturale, una corsa nel deserto.

 

Attenzione! Il deserto, alla fine, è la condizione provvisoria di chi aspira a una terra nuova. È assenza, mancanza, smarrimento, necessari a spogliarci da certezze che in realtà ci imprigionano. Il deserto non dà punti di riferimento: è una sfida a trovarli dentro e non fuori di noi.

Anche la lingua è simbolo, segno… indica il modo di pensare di un popolo. Se non parli la sua lingua non puoi capirlo fino in fondo, non puoi evangelizzare efficacemente, ecco perché i missionari stranieri furono i grandi linguisti delle lingue autoctone dell’Africa, dell’Asia e dell’America: ne fissarono l’alfabeto e la grammatica, come S. José Anchieta che scrisse un meraviglioso poema alla Madonna sulla spiaggia brasiliana nella lingua indigena del tupi-guarani.

McLuhan, maestro mediologo, leggeva ogni giorno una pagina del Vangelo in una lingua diversa e vi scopriva contenuti nuovi.

Il Piccolo Principe è appunto uno di quei libri che ho voluto gustare nelle varie edizioni delle lingue a me accessibili.

Non sulla spiaggia del mare, ma sulla sabbia del Sahara è ambientato il romanzo del pilota francese Antoine de Saint-Exupery

E’ divertente pensare che i guarani chiamavano il padre José abarebebe che nel tupi significa “prete santo volante”. Non che fosse un S. Giuseppe da Copertino con il dono mistico della levitazione, ma il gesuita portoghese percorreva centinaia e centinaia di chilometri divorato dal fuoco dell’evangelizzazione più ardente ed esplosivo di un razzo.

“Il Piccolo principe” è ambientato nel deserto. Il protagonista è un aviatore il cui aereo si è rotto, la sua fede nella tecnica e nel progresso è in panne. Nel deserto torna in balia della vita nuda, senza appigli: «Era questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana». Proprio lì incontra il principe che ha dentro, l’uomo interiore che è «bambino» solo perché ha una voce sottile e non si impone, la parte di noi che vede l’ordine simbolico, il senso da dare all’agire quotidiano, la capacità di trovare la cattedrale nella pietra, il tutto nella parte. Simbolico viene dalla parola symbolon (dal greco: mettere insieme): un disco d’argilla spezzato in due, che permetteva ai possessori di riconoscersi, garanzia di autenticità di un legame. Per questo il credo cristiano si chiama simbolo della fede, per indicare l’ordine di senso in cui le persone più diverse e sparse dappertutto si riconoscono in un legame: sono figli dello stesso Padre. L’ordine simbolico della realtà è quindi ciò che dà significato a ogni cosa grazie a un legame. Senza l’ordine simbolico prevale quello «diabolico» (diabolon: separare, è il contrario di symbolon) la vita diventa un dato muto, che rende impossibile elaborare un lutto, un fallimento, o semplicemente trovare un senso alla ripetizione dei giorni. Il pilota trova nel Principe il «simbolico» perduto: infatti il bambino vuole tornare sulla stella dove ha la sua Rosa, l’essenziale, invisibile agli occhi, ma non per questo irreale. La Rosa è infatti la metà del simbolo che orienta tutti i suoi pensieri e azioni. I personaggi che incontra, dal geografo al re, dal lampionaio all’ubriaco, hanno smarrito la metà invisibile delle cose. Sono «uomini del bisogno»: riducono l’essenziale a oggetti e ruoli «visibili» e, per questo, sono malati, cioè prigionieri della sola evidenza materiale, la loro sete d’infinito è sottomessa al potere delle cose e degli altri. Oggi la cultura del «pienessere» ci spinge a essere continuamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia. L’essenziale è perciò anche visibile agli occhi ma come metà incompiuta, come un volto che racconta la persona: «Cari pittori del ’900, di facce ce n’è una gran varietà. Ma solo di nuovo imparando a leggere l’invisibile nel visibile, restituirete loro la dignità che hanno», scriveva Ungaretti un secolo fa, intuendo che senza il simbolico gli altri diventano «facce» mute, privi di dignità.

L’aviatore stesso è uno di quei personaggi che ha dimenticato la metà invisibile delle cose. Con il suo aereo spera di raggiungere ciò che gli manca, ma quel mezzo non basta. Il piccolo principe è invece «l’uomo del desiderio», l’uomo interiore che trasforma la mancanza in ricerca, traduce il desiderio in pensiero e azione: ogni cosa è la metà visibile della rosa, l’essenziale invisibile agli occhi ma visibile al cuore. Egli salva «i grandi», uomini senza cuore, perché ha il senso dell’invisibile. Per lui assenza e mancanza sono pieni del significato dato dal legame con la Rosa, il suo symbolon. La perdita del simbolo rende muta la metà invisibile delle cose ed inevitabile si apre il deserto di senso. Educare è proprio costruire il simbolico davanti al pane duro della realtà. Solo imparando ad abitare il deserto, il bambino e l’adolescente costruiscono il soggetto e imparano a organizzare il desiderio, che trasformano in iniziativa e creatività, grazie ai legami stabili con adulti non ossessionati dal produrre l’adulto perfetto. Non è un caso che il principe affermi che il deserto è bello perché «nasconde un pozzo in qualche luogo». Le perdite, le mancanze, le cadute, non «simbolizzate», cioè prive di senso e di legami forti, non vengono eliminate ma diventano (auto)distruttive. La vita interiore ha il compito di «simbolizzare», trovare la metà mancante, per vivere. Ammazzarsi di fatica o costruire una cattedrale si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra invece, avendo un senso, libera.

Quando lessi per la prima volta la fine del Piccolo Principe provai il dolore delle verità scomode ma ineludibili. Per riunirsi alla rosa si lascia mordere dal serpente proprio nell’anniversario della sua caduta sulla terra: va incontro alla morte perché anche la morte è la metà visibile dell’invisibile, una porta sulla rosa, non un muro. Grazie al simbolo l’uomo riempie le cose del suo spirito e abbandona il vano tentativo di strappare lo spirito dalle cose. Riempire le cose di spirito significa dar loro un senso che le trascende: la volpe scoprirà il colore del grano perché è quello dei capelli del suo amico biondo, l’aviatore vedrà ridere le stelle perché una è quella abitata dal principe e la sua rosa. Il Piccolo Principe è il piccolo libro della nostalgia di simboli di una cultura che, rinchiusa in «metà» della realtà, spesso ne perde la «meta»: il lavoro diventa schiavitù, la fragilità colpa, i legami limite, il sesso consumo, l’arte narcisismo, il dolore condanna, la morte muro.

Il letto da rifare oggi è cercare il «rabdomante del simbolico», il piccolo principe che trova il pozzo nel deserto, indica il lato invisibile attraverso quello visibile delle cose e guida i prigionieri del «pienessere» nella terra che non è dopo il deserto, ma dentro: di noi, dove nessuno può strapparcela, una terra interiore in cui ogni pietra è la cattedrale, ogni spina la Rosa. Questo principe interiore è nel silenzio, nella lettura, nella preghiera, nell’amicizia, nel dono di sé, nel dolore, come ha imparato l’aviatore: «Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o no il fiore? E vedrete che tutto cambia. Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia importanza». In tutte le mie edizioni del libro l’ultima immagine disegnata dall’autore è un deserto sul quale, finalmente, si è accesa una stella.

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