DUREZZA E INDIFFERENZA DI CUORE

Riflessioni sulla XXVI Domenica Anno C

Quando si contempla “Lazzaro e il ricco Epulone” di un pittore come Jacopo Bassano, balzano subito agli occhi i contrasti e le contraddizioni che dal racconto di Luca sono fissate nella prosa evangelica.

Sulla porta giaceva un mendicante coperto di piaghe. Il dipinto esprime egregiamente la collocazione del povero, inserito tra un ambiente conviviale e uno spazio naturale aperto e rigoglioso.
Di lui non si accorge alcun essere umano, nessun ricco gli rivolge lo sguardo, solo i cani si avvicinano per leccargli le piaghe.
Su di essi si posa l’occhio del padroncino, elegante e giovanissimo, incuriosito dal movimento degli animali di casa.
La tavola è già sparecchiata, il vassoio posato a terra vuoto vuol significare le ultime leccornie lasciate come cibo ai cani o forse addirittura approntate per essi.
Per quel misero “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco” non restano neppure le briciole.
A lui l’attenzione dei cani, quasi a mostrare che in quel luogo lui non valeva più di questi.
In effetti la padrona di casa gli dà le spalle, avvolte in un tessuto di porpora, spalle vellutate dalla carnagione pallida.
Anche il suonatore di liuto che aveva allietato la tavola di Epulone continua la conversazione con i signori incurante di ciò che avviene alle sue spalle; gli basta l’amicizia e la riconoscenza dei ricchi per sentirsi realizzato.
Sul lato opposto di Lazzaro fa bella mostra di sé Epulone, vestito di porpora e di bisso, ben lontano anche con il pensiero dai problemi del prossimo.
Lazzaro è prossimo, è vicino, ma non si vede.
In Epulone non palpita la commiserazione, la pietà o la carità: non è affar suo occuparsi di affari extra-palazzo; sarebbe un divergere dal ménage quotidiano, coronato di “lauti banchetti”: il povero non è se non un fastidioso incomodo.
Quanto attuale la situazione ora osservata e quanto eloquente il messaggio rappresentato dal ricco Epulone, un uomo che basta a se stesso, tutto preso nella propria opera, come se la sua vita dovesse durare in eterno.
Infatti, solo la meditazione sulla finitezza e provvisorietà della condizione umana porta a rapportarsi con Dio, in termini di creatura, ma anche di figlio e quindi erede del Suo regno.
Ad inizio anno Papa Francesco, nelle sue omelie a Santa Marta, ha parlato del peccato dell’indifferenza e di come il Ricco Epulone avesse creato intorno a sé una bolla incapace di relazionarlo col mondo esterno.
La chiusura del cuore è in definitiva «la chiusura in se stesso: fare un mondo in se stesso». Accade quando l’uomo è «chiuso in se stesso, nella sua comunità o nella sua parrocchia». Si tratta di una chiusura che «può girare intorno a tante cose»: all’«orgoglio, alla sufficienza, al pensare che io sono meglio degli altri» o anche «alla vanità».
Ha precisato il Papa: «Ci sono l’uomo e la donna “specchio”, che sono chiusi in se stessi per guardare se stessi, continuamente»: si potrebbero definire «narcisisti religiosi». Questi «hanno il cuore duro, perché sono chiusi, non sono aperti. E cercano di difendersi con questi muri che fanno intorno a sé».
C’è inoltre un ulteriore motivo che indurisce il cuore: l’insicurezza. È ciò che sperimenta colui che pensa: «Io non mi sento sicuro e cerco dove aggrapparmi per essere sicuro». Questo atteggiamento è tipico della gente «che è tanto attaccata alla lettera della legge». Accadeva, ha spiegato il Pontefice, «con i Farisei, con i Sadducei, con i dottori della legge del tempo di Gesù». I quali obiettavano: «Ma la legge dice questo, ma dice questo fino a qui…», e così «facevano un altro comandamento»; alla fine, «poverini, si addossavano 300-400 comandamenti e si sentivano sicuri».
In realtà, ha fatto notare Francesco, tutti questi «sono persone sicure, ma come è sicuro un uomo o una donna nella cella di un carcere dietro la grata: è una sicurezza senza libertà». Mentre è proprio la libertà ciò che «è venuto a portarci Gesù». San Paolo, ad esempio, rimprovera Giacomo e anche Pietro «perché non accettano la libertà che Gesù ci ha portato».
Infatti «nell’amore non c’è timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Non è libero. Sempre ha il timore che succeda qualcosa di doloroso, di triste», che ci faccia «andare male nella vita o rischiare la salvezza eterna». In realtà, sono solo «immaginazioni», perché semplicemente quel cuore «non ama». Il cuore dei discepoli, ha spiegato il Papa, «era indurito perché ancora non avevano imparato ad amare».
Ci si può allora chiedere: «Chi ci insegna ad amare? Chi ci libera da questa durezza?» Può farlo «soltanto lo Spirito Santo», ha chiarito Francesco precisando: «Tu puoi fare mille corsi di catechesi, mille corsi di spiritualità, mille corsi di yoga, zen e tutte queste cose. Ma tutto questo non sarà mai capace di darti la libertà di figlio». Solo lo Spirito Santo «muove il tuo cuore per dire “padre”»; solo lui «è capace di scacciare, di rompere questa durezza del cuore» e di renderlo «docile al Signore. Docile alla libertà dell’amore». Non a caso il cuore dei discepoli è rimasto «indurito fino al giorno dell’Ascensione», quando hanno detto al Signore: «Adesso si farà la rivoluzione e viene il regno!». In realtà «non capivano niente». E «soltanto quando è venuto lo Spirito Santo, le cose sono cambiate».
Chiediamo al Signore la grazia di avere un cuore docile: che lui ci salvi dalla schiavitù del cuore indurito» e «ci porti avanti in quella bella libertà dell’amore perfetto, la libertà dei figli di Dio, quella che soltanto può dare lo Spirito Santo.

Fra AMAB

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