IL MISTERO DEL FIGLIO NON PRODIGO

 Devo confessare che nel corso del mio ministero sacerdotale ha suscitato più perplessità ed interrogativi la figura del Figlio maggiore della parabola sul Figliol prodigo che  il figliol prodigo stesso la cui vicenda forse è più leggibile sia come immedesimazione personale nell’esperienza del peccato, sia come riconoscimento di essere stati oggetto del perdono.

Il Figlio maggiore che, a prima vista, non sembra aver bisogno di conversione e quindi della misericordia del Padre è infatti colui che osserva perfettamente la legge, spende la sua vita e le sue energie al servizio del padre senza mai concedersi né gioie né svaghi. Un conflitto tra bisogno di autonomia e di libertà e la sottomissione alla volontà del Padre, tra l’espressione di sé nel godimento e l’osservanza della legge, sembra in lui inesistente, o almeno, sembra risolto in senso positivo. Egli dice infatti in tutta verità: “Sono tanti anni che ti servo senza aver mai trasgredito uno dei tuoi ordini”. Il tono dell’asserzione, però, che si deduce dall’aggiunta: “e tu non mi hai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici”, fa pensare che non si tratti di una constatazione serena della realtà. Essa sa invece di accusa e pertanto tradisce un profondo risentimento verso il Padre e, insieme al suo atteggiamento verso il fratello minore, rivela il conflitto sottostante a una vita in apparenza adattata.

Colpisce il fatto che il giovane non usa né la parola “padre” né “fratello” e si dice “servo”. Egli ha “amici” ma confessa che non ha mai goduto con loro un clima di “festa”. È perciò evidente che la sua vita manca delle due dimensioni fondamentali: quella dell’apertura filiale e fraterna e quella della gratuità; ed è questa carenza che inficia in radice la stessa realtà di perfezione e di religione.

Il tipo di perfezione che il figlio maggiore realizza sembra invece un ideale il quale più che liberarlo e aprirlo lo rende prigioniero. L’ideale che lo assilla, come un’idea ossessiva che non gli lascia tregua, si erge con una statua smagliante di una impeccabilità assoluta con la quale vorrebbe coincidere. Egli sacrifica ad essa ogni desiderio e ogni gioia umana, sostenendo una lotta spietata contro se stesso e contro le proprie impurità.

I grandi maestri di spirito hanno sempre denunciato l’insidia del perfezionismo a cui vanno soggetti gli uomini spirituali. La psicologia clinica, dal canto suo, dimostra come il ripiegamento narcisistico, con cui l’uomo osserva se stesso per forgiare in sé una identità gradita ai propri occhi e agli occhi di Dio, andando fin in fondo alle proprie possibilità, è praticamente una sorta di presunzione religiosa. Essa è anti-religiosa perché svisa la stessa intenzione di Dio strumentalizzandolo al proprio ideale assurdo. Per un sottile gioco della sua psicologia il perfezionista, infatti, nel suo desiderio di sopprimere in sé ogni falla, si immagina che l’altro io desideri senza difetto e, volendosi riconoscere così, attribuisce questo desiderio all’altro. Proseguendo il suo ideale il perfezionista vorrebbe essere interamente quello che immagina che deve divenire: colui che può raggiungere in sé il dominio assoluto, la vittoria sulle passioni, sui movimenti della natura, in una abnegazione senza debolezze e in una completa dedizione al dovere; È in fondo il desiderio di una pienezza dove sia abolita ogni divisione e ogni falla, dove si sarebbe interamente d’accordo con se stessi, soddisfatti della propria identità. Questo tipo di autosufficienza è però quanto mai fragile. È proprio nella tensione ossessiva alla perfezione che appare il senso di angoscia e di colpa prodotto dalla preoccupazione costante di perdere la stima e l’amore dell’altro parallelamente alla sofferenza narcisistica di perdere l’amore e la stima che si porta a se stessi. La preoccupazione di dispiacere all’altro e l’ansia di essere riconosciuti nella propria perfezione distruggono l’amore e generano la diffidenza mai pacificata che facilmente si converte in rivendicazione: “tanti anni ti ho servito fedelmente, senza concedermi nulla e tu…?”

Lo spirito antireligioso del legalismo opera una inversione paradossale: l’accento è messo sulla attenzione a sé e al proprio operare per essere approvati da Dio. La paura del giudizio negativo di Dio deriva ancora dal desiderio di essere a lui accetti, da lui amati. Per questo si cerca di apportare il più possibile correttivi alle imperfezioni, si moltiplicano le prescrizioni, si rimandano le gioie e tutto ciò che è permesso viene ancora trasformato in dovere. Si cede, insomma, sui propri desideri per essere oggetto puro della benevolenza di Dio, ma facendo questo si cerca di assicurarsela, di comperarla mediante i propri meriti. Ci si comporta, in fin dei conti, come se, mediante le proprie azioni si producesse da se stesso il dono dell’altro. In fondo non si crede in lui, non gli si dona la fiducia. La fede si altera nella ricerca della garanzia della benevolenza. Il legalismo nasconde l’incredulità e per questo è “la perversione più insidiosa della religione. Volendo prevenire la colpa, cercando di essere intatto, il legalista si istalla in una ricchezza religiosa, in quella rocca che non ha più limite né apertura per il desiderio”. Il movimento specificamente religioso: scoprire la presenza beatificante dell’Altro e aprirsi riconoscenti al suo dono rimane così soffocato in radice. Per questo il figlio maggiore della nostra parabola non riesce a comprendere né a gustare il “tu sei sempre con me ed ogni cosa mia è tua”, come, del resto, gli operai della prima ora nella parabola della vigna, reclamando una distinzione rispetto agli ultimi, rivelano di non riconoscere il dono molto più grande concesso a loro di avere potuto vivere e operare alla presenza di Dio fin dal principio.

Il messaggio di Cristo, trasmesso attraverso le parabole, mentre denuncia l’antireligiosità del perfezionismo legalista evidenzia che l’essenza del regno di Dio consiste nella scoperta e nella accoglienza della presenza dell’Altro che è Padre benevolo.

La fede nella paternità divina libera dall’angoscia perché il credente sa che la benevolenza di Dio è più forte delle debolezze e imperfezioni umane, come del resto i genitori, normalmente superiori ai capricci e alle aggressività dei bambini, non vi rispondono con rappresaglie. La fede, spostando l’attenzione del credente da se stesso a Dio in una apertura di fiducia e ammirazione, porta alla accettazione di sé e dei propri limiti e rende quindi possibile la confessione ossia il riconoscimento delle proprie fragilità e imperfezioni davanti a Dio al fine di ottenerne il perdono e di essere confermato nell’esperienza dell’amore di Dio. Tale esperienza è possibile soltanto se l’uomo ha dissipato in sé l’immagine di un Dio tirannico e onnipotente che rifiuterebbe all’uomo di sbagliare, mentre d’altra parte non fa nulla per prevenire i suoi errori. Accettando i propri limiti e aprendosi alla fiducia in Dio, l’uomo non ha bisogno di dissimulare a se stesso le proprie passioni né le proprie defezioni, ma impara a conoscere “ciò che è nell’uomo” divenendo, di conseguenza, più indulgente e più comprensivo anche verso gli altri che riconosce implicati nelle stesse difficoltà e limiti, difficili da assumersi interamente.

Mentre il perfezionismo chiude l’uomo in se stesso, in una tensione ansiosa che lo rende apprensivo e severo verso gli altri, oltre che verso se stesso, il riconoscimento della verità su se stesso e su Dio riconcilia l’uomo con se stesso e con la condizione umana come tale, conferendogli serenità e bontà ottimistica. Per questo il senso della fratellanza è una conseguenza naturale dell’esperienza del Padre, della cui bontà si riconoscono con gioia le tracce nella vita propria come in quella altrui. Che questo non si sia verificato nella vita del figlio maggiore della nostra parabola si deduce dal fatto che le attestazioni di bontà e di indulgenza del Padre verso il figlio minore lo irritano perché esse costituiscono una minaccia all’immagine idealizzata della propria perfezione e sconvolgono l’idea stessa che egli ha di Dio. Esse suonano come una disapprovazione tacita del suo legalismo e un rimprovero silenzioso alla sua chiusura narcisistica. Esse significano, inoltre, il venir meno di quella approvazione personale che gli sembrava dovuta e aumentano pertanto il suo tormento ansioso. La propria perfezione non è compresa e cercata a livello dell’essere come capacità di apertura e di adesione al Padre e a tutto ciò che lo riguarda (i fratelli), ma a livello dell’azione e della produzione, quasi dimostrazione del proprio valore.

Comprendiamo che la struttura psicologica del perfezionista ostacola notevolmente il raggiungimento dell’apertura a Dio nella conversione.

La misericordia dovrà in questo caso cercare vie particolari per rompere tale rigidità ed aiutare la personalità a impostarsi in modo più duttile e perciò più sereno ed autentico.

Il pontificato di Papa Francesco che nel 2015 istituì l’Anno della Misericordia e che erede della spiritualità ignaziana stimmatizzò molto presto la mondanità spirituale, ci aiuta a scoprire un percorso di redenzione e di speranza in una società eterodossa e massificata che si confronta con la ricchezza della Misericordia Divina sviluppato già nel Magistero recente di San Giovanni Paolo II devoto e conterraneo di Santa Faustina Kowalska, la veggente di Gesù Misericordioso.

Il Figlio maggiore, in definitiva, anche se sotto diversa forma, non è ancora un perfetto ma rimane un peccatore con la maschera del bene e quindi una caricatura di Dio che nell’umanità di Cristo ha piuttosto assunto i nostri peccati per liberarcene in quell’atteggiamento di autenticità che si polarizzava con il legalismo accusatore degli Scribi e dei Farisei che furono coloro che lo fecero crocifiggere.

Fra AMAB

 

 

 

 

Una risposta a “IL MISTERO DEL FIGLIO NON PRODIGO”

  1. Mi riconosco totalmente nel figlio maggiore. Voglio aprirmi e migliorarmi sotto questo aspetto. Il perfezionismo è una prigione auto-creata dove ogni guardia ha le proprie sembianze.

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