Santi Innocenti martiri

La festa che si celebra in questo giorno è difficile. Prima di tutto per un motivo ben preciso: è difficile considerare motivo di festa la memoria di una strage crudele di bambini.

Stragi come quella ricordata da Matteo sono state compiute più volte dagli uomini, da sovrani crudeli e folli; particolarmente esposte a forme di violenza tanto esasperata sono proprio le guerre di religione, ispirate cioè a pretesi motivi religiosi. Non solo le stragi, ma anche le mille altre forme di violenza sui bambini suscitano facilmente un’obiezione radicale: non solo contro la crudeltà dei tiranni, ma contro la stessa tolleranza di Dio. “Perché Dio permette queste cose? – si dice – Se davvero ci fosse un Dio buono e provvidente, non dovrebbe tollerare queste cose”. La sofferenza dei bambini è uno dei massimi argomenti – o quanto meno degli argomenti più clamorosi – contro l’esistenza di Dio. Tutti ricordano l’enfatica invettiva che Ivan Karamazov produce davanti al suo piccolo fratello Alioscia, appartenente al numero degli innocenti ignari. Nella pagina di Matteo dobbiamo effettivamente riconoscere una risposta a quello scandalo. La festa è difficile anche a motivo della difficoltà della pagina di Matteo. Storia? Leggenda? Midrash edificante? I racconti dei primi due capitoli di Matteo, il cosiddetto vangelo dell’infanzia, sono spesso trattati quasi si trattasse di racconti per l’infanzia; in realtà si tratta di testi estremamente sofisticati. Certo non si tratta di narrazioni realistiche; sul loro sfondo sta non una memoria articolata di singoli eventi, ma una notizia laconica, la quale diventa la trama per una complessa elaborazione “teologica” – come si dice. Guidano tale elaborazione due intenti di fondo: indicare come già attraverso le vicende del bambino si annunci il destino futuro del Messia; suggerire come in quel destino trovino compimento le Scritture. I cinque episodi del vangelo dell’infanzia secondo Matteo sono tutti interpretati mediante una citazione dell’Antico Testamento. La tecnica letteraria sottesa è appunto quella del midrash rabbinico: un episodio antico offre la traccia e anche le parole per intendere un fatto contemporaneo; attraverso la sovrapposizione dei due fatti emerge la verità che sta oltre ai fatti; la verità del disegno di Dio, concepito da sempre e destinato a realizzare la vita per sempre dei figli suoi, e anzi tutto del Figlio suo. Attraverso questi cinque brevi racconti (due dei quali riferiti nel passo odierno), il vangelo produce una grandiosa sintesi di tutta la storia antica di Israele, che prepara la venuta del Messia. Per illustrare tale sintesi occorrerebbe entrare nelle trame sottili nascoste nei cinque racconti.
La fuga di Gesù bambino in Egitto è interpretata mediante la citazione esplicita di Osea, dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Quel testo si riferisce ovviamente all’esodo, all’uscita dunque di Israele dalla terra della sua schiavitù; Gesù che fugge in Egitto e poi ritorna riprende l’esodo antico; ma non si tratta di mera ripetizione; soltanto ora, con Gesù, il cammino antico è portato a compimento. A trent’anni Gesù lascerà di nuovo la casa di Nazaret, si recherà da Giovanni presso il Giordano; il suo sarà come il ritorno in esilio. Starà poi per quaranta giorni nel deserto: anche in tal modo egli riprenderà la vicenda di Israele, che per quarant’anni visse nel deserto, prima di entrare nella terra promessa. Tornerà poi in Galilea, e lasciata Nazaret si stabilirà a Cafarnao, come è detto a conclusione dei racconti dell’infanzia. Prima d’essere chiamato dall’Egitto a opera del Padre, in quel paese Gesù cerca rifugio contro la violenza di Erode. Anche Israele in Egitto aveva cercato rifugio ai tempi di Giuseppe, non per fuggire alla violenza di un tiranno, ma per fuggire alla fame. In Egitto Giacobbe avrebbe voluto cercare non rifugio, ma soltanto il pane; ma il figlio Giuseppe, divenuto governatore di quell’impero, trascinò in Egitto il padre ignaro insieme ai suoi fratelli. La breve notizia della fuga in Egitto e del ritorno è in tal senso una ripresa della storia delle origini di Israele, che insieme porta a compimento la promessa iscritta in quegli eventi. Nella storia del Giuseppe antico e dei suoi fratelli c’è molto dolore, e crudele dolore, ma che alla fine si risolve nel ricongiungimento dei fratelli; Gesù porterà nel mondo certo anche molto dolore, ma che si risolverà nel ricongiungimento dei fratelli. In questa giornata liturgica la pagina di Matteo è letta per celebrare i santi Innocenti. La notizia dell’uccisione di un numero imprecisato di bambini è tra le notizie più crudeli del vangelo. Come intenderla? È il ricordo di una strage effettiva? O soltanto una figura letteraria per dire dei molti innocenti che perderanno la vita a motivo di Gesù?
La loro celebrazione è presente in tutti i calendari liturgici orientali e occidentali e risale ad almeno il IV secolo, attestata nel calendario cartaginese e in seguito inserita nel Sacramentario leoniano. Proprio di Cartagine era originario il vescovo san Quodvultdeus (†454), letteralmente “Quello che Dio vuole”, che così disse dei Santi Innocenti: “O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta perché non muovono ancora le membra, e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria”.
I discepoli tutti sono più volte considerati nel vangelo come bambini; la fede in Gesù rende vulnerabili e deboli. A difesa dei piccoli che credono in lui si leva Gesù stesso, che dice: Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. Dunque, immagine o realtà? Il vangelo interpreta la strage dei bambini attraverso la citazione di un testo di Geremia, che dice del pianto di Rachele. Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più. Rachele è la seconda moglie di Giacobbe, quella preferita, ma meno fortunata; rimarrà a lungo sterile, ma alla fine darà alla luce i due figli preferiti dal padre Giacobbe, Giuseppe e Beniamino. Rama, un paese vicino a Betlemme, era il luogo del suo sepolcro; essa era morta dando alla luce il figlio Beniamino; era morta per dare la vita al figlio. Ora Rachele che piange i suoi figli; si tratta dei figli di Israele che sono deportati in esilio. Rachele diventa un’immagine del popolo di Israele che piange i figli esuli. Rachele piange, ma Dio la consola, la invita a non piangere più. Il testo di Geremia continua infatti così: «Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini. Nella figura di una madre che non riesce in alcun modo a essere consolata per la morte dei suoi figli c’è molta verità. Nessuno riesce a consolare una madre così, e soprattutto una madre così non vuole in alcun modo essere consolata. Considererebbe la consolazione quasi come un tradimento dell’alleanza con i figli. Se i figli non sono più, l’unica possibile alleanza con loro è il pianto. In tal senso, c’è una verità indubitabile nel rifiuto perentorio che molte voci della cultura moderna oppongono alla sofferenza dei bambini. Si tratta della verità attestata dal modo di sentire di tutte le madri. E tuttavia anche per il dolore della madre che piange i suoi figli c’è una consolazione. Così afferma Dio stesso mediante la voce del profeta. E così dirà soprattutto la vicenda stessa di Gesù. La venuta del Figlio di Dio in questo mondo non è soltanto principio di comprensione e di pace. Il giorno dopo del Natale, quando ancora non si è spento il canto degli angeli, Pace in terra agli uomini che egli ama, la Chiesa celebra la festa di santo Stefano. Il vangelo di Gesù, proclamato con franchezza e anche con letizia da Stefano, scatena violenza. Tre giorni dopo la Chiesa celebra la festa dei santi Innocenti; poi ancora la festa di Tommaso Becket. La verità del vangelo risuona nel mondo anche – e certo non marginalmente – grazie alla sofferenza degli innocenti. E sotto altro profilo la salvezza portata da Gesù in questo mondo non può realizzarsi altri che suscitando anche molta sofferenza innocente.
I Santi Innocenti ci ricordano l’incommensurabile dignità dei bambini per Cristo e la sua Chiesa, in un mondo che rifiuta Dio e va calpestando questa dignità con la legittimazione delle più varie forme di violenza compiute sull’infanzia. In questo senso si può ricordare come profetica la decisione dell’arcivescovo di Milano, il beato Ildefonso Schuster, che il 28 dicembre 1936 consacrò ai Santi Innocenti l’altare della chiesa di San Giuseppe alla Mangiagalli, clinica dove quattro decenni più tardi sarebbero stati eseguiti i primi aborti autorizzati in Italia. Da allora la violazione dell’innocenza attraverso norme statali non si è più fermata, tracciando un cammino mortifero comune a tanti Paesi dell’Occidente, che oggi sono arrivati a consentire l’eutanasia dei bambini disabili e l’indottrinamento dei più piccoli attraverso ideologie (come la teoria del gender) che negano l’identità maschile e femminile e l’essenzialità della madre e del padre.
Ai Santi Innocenti che già godono della visione beatifica chiediamo di custodire i bambini di oggi e la loro intercessione perché l’umanità arrivi a riconoscere e chiedere perdono per un peccato, come quello verso i più piccoli, che più di ogni altro muove la giustizia divina.

 

 

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